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Rifondare la scienza, riformare lo Stato. L’esperienza di Carmine Lippi, «modernizzatore delle periferie europee» al servizio della patria

Fabio D’Angelo

fabiodangelo2003@gmail.com

Received 28/09/2024 | Accepted 31/03/2025 | Published online 22/12/2025

Abstract

Dopo aver partecipato, tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, a diversi viaggi di formazione tecnico-scientifica, lo scienziato Carmine Antonio Lippi, originario di un piccolo paese dell’attuale Cilento, si stabilisce definitamente a Napoli a partire dall’inizio del Decennio francese (1806-1815). Le conoscenze e le competenze acquisite durante i suoi numerosi viaggi, che spaziano dalla medicina alla mineralogia, dall’ingegneria alla gestione burocratico-amministrativa delle istituzioni scientifiche, confluiscono in diverse opere a stampa pubblicate dallo scienziato tra il 1815 e il 1820. Inoltre la sua elezione, nell’agosto del 1820, al primo Parlamento nazionale del Regno delle Due Sicilie rappresenta un’importante occasione per portare i suoi progetti riformatori al servizio della politica. L’articolo, che si ispira in particolar modo a due testi a stampa dello scienziato, rappresenta un tentativo di riflessione sull’attività di un uomo di scienza che interviene nel dibattito politico meridionale degli anni Venti dell’Ottocento.

English abstract

After participating in several technical and scientific educational trips between the late eighteenth and early nineteenth centuries, the scientist Carmine Antonio Lippi, originally from a small town in what is now Cilento, settled permanently in Naples at the beginning of the French Decade (1806–1815). The knowledge and skills he acquired during his numerous travels, ranging from medicine to mineralogy, from engineering to the bureaucratic and administrative management of scientific institutions, were incorporated into several printed works published by the scientist between 1815 and 1820. Furthermore, his election to the first national Parliament of the Kingdom of the Two Sicilies in August 1820 provided an important opportunity to bring his reformist projects to the service of politics. This article, which draws heavily  on two of the scientist’s published texts, represents an attempt to reflect on the work of a man of science who intervened in the political debate in Southern Italy in the 1820s.

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Nel 1785 il sovrano del Regno di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, su suggerimento del generale Giuseppe Parisi, comandante dell’Accademia militare Nunziatella, finanziò un viaggio a Montpellier del giovane studente in medicina Carmine Antonio Lippi [ADH, 1785]. Al termine del soggiorno in Francia, il governo borbonico decise poi di unire Lippi al gruppo dei cinque naturalisti che nel maggio 1789 intraprese una spedizione mineralogica in Europa [D’Angelo, 2016] [Rao, 1987]. Per sette lunghi anni si spostò dall’Austria alla Germania, dalla Francia all’Inghilterra e come i compagni di avventure, al ritorno a Napoli, fu nominato sovrintendente ai lavori di scavo alle ferriere di Stilo, in Calabria, nel 1796.

Le due missioni alle quali Lippi aveva partecipato alla fine del Settecento rientravano in un più intenso programma di riforme delle istituzioni tecnico-scientifiche del Mezzogiorno d’Italia che prevedeva il finanziamento di viaggi presso alcuni poli formativi dell’Europa del tempo: la Francia, per l’ingegneria e la medicina; l’Inghilterra per la lavorazione del carbone e la costruzione delle prime macchine a vapore; gli Stati di area tedesca per lo sfruttamento e lavorazione dei minerali e dei metalli.

I viaggi di Lippi, così come altri organizzati nello stesso periodo, assunsero la dimensione di un investimento che le autorità borboniche avevano fatto per la formazione di giovani scienziati [Bertrand, Frétigné, 2016] [D’Angelo, 2018]. Il messaggio che essi trasmisero al loro ritorno in patria andava in una direzione decisamente innovativa in quanto poneva al centro del processo di crescita economica una conoscenza attiva e non più solo passiva del dato tecnico. La formazione di una moderna e autoctona cultura tecnico-scientifica diventava la premessa indispensabile per uno sviluppo industriale di tipo endogeno, ragion per cui l’insufficienza o l’impreparazione dei tecnici dovevano essere colmate non più solo con trasferte e missioni di studio, o ricorrendo, come per il passato, alla consulenza di maestranze straniere ma facendo crescere in loco un ambiente culturale adeguato.

Occorre inoltre considerare che il progetto politico dei sovrani napoletani di sostegno alla mobilità scientifica deve essere inquadrato in un periodo storico, quello della seconda età moderna,

in cui la circolazione dei saperi scientifici e delle tecniche aveva conosciuto un notevole incremento. A partire dal XVIII secolo cominciò infatti a consolidarsi, ovunque in Europa, la consapevolezza che lo sviluppo economico di una società avvenisse non soltanto grazie alla disponibilità di materie prime e all’impiego di nuovi strumenti ma anche attraverso gli scambi di esperienze, di risultati e la circolazione delle conoscenze [Beaurepaire, Pourchasse, 2010] [Bertrand, 2014]. La modernizzazione di un paese si fondava pure sulla comparazione transnazionale di esperienze intellettuali dal momento che chi si spostava da uno spazio geografico all’altro non ampliava soltanto il bagaglio di conoscenze, non diventava esclusivamente veicolo di tecniche innovative ma anche di modelli burocratico-amministrativi di gestione delle istituzioni, dei talenti [Raj, 2010] [Gonzàlez Bernaldo, Hilaire-Peréz, 2015] [Hilaire-Peréz, Simon, Thébaud-Sorger, 2016].

Fino ai primi decenni dell’Ottocento, il flusso di scienziati che percorse l’Europa si distinse per la poliedricità, la capacità di spaziare nei diversi campi dello scibile, dall’economia allo studio della società, alla letteratura. Anche per Lippi, le diverse esperienze di viaggio gli consentirono di dedicarsi allo studio della medicina, mineralogia, botanica, ingegneria idraulica. Una formazione complementare che sarebbe servita non tanto ad accrescere la gloria personale quanto a fare da volano alle riforme [Bourdeau, Chappey, Julien, 2020]. Questo spirito eclettico iniziò però a tramontare nella prima metà del XIX secolo quando si imposero figure caratterizzate da uno specialismo sempre più spinto e dalla graduale rinuncia alla polivalenza e al cosmopolitismo. Il viaggio, il contatto tra i diversi paesi e lo scambio intellettuale furono alcuni degli elementi che ne favorirono la trasformazione [Chappey, Donato, 2016].

Su questi temi la storiografia ha privilegiato ricerche tese a riconoscere le modalità con le quali avvenne il trasferimento tecnico-scientifico da un paese all’altro e ad analizzare i circuiti di circolazione dei saperi. Dal dibattito è emerso anche che la comunicazione delle conoscenze fu favorita da un insieme di reti politico-economiche capaci di mettere in relazione i tecnici-scienziati tra loro grazie alla mediazione delle istituzioni accademiche, al sostegno dello Stato e all'esistenza di uno spazio sociale intellettuale sovranazionale [Van Damme, 2017].

Un ‘passeur scientifique’ nel Mezzogiorno d’Italia nel primo ventennio dell’Ottocento

Riguardo al Mezzogiorno d’Italia, le ricerche inerenti alla storia delle scienze hanno spesso sottolineato il carattere di subalternità del Regno di Napoli rispetto ad altre aree geografiche d’Europa, interpretazione secondo cui le teorie e le tecniche si sarebbero diffuse in maniera lineare senza tener conto delle relazioni con le tradizioni presenti nelle società d’origine degli scienziati [De Sanctis, 1986] [Mazzola, 2012]. Il caso invece di Carmine Lippi, le sue esperienze di viaggio così come i suoi progetti di riforma inducono ad una riflessione sulla costruzione di una cultura scientifica nel Regno di Napoli come processo di acculturazione, di appropriazione e di riformulazione di teorie e pratiche, pure burocratiche ed amministrative, elaborate altrove.

Nato a Casal Velino, piccolo borgo nell’attuale provincia di Salerno, Lippi si trasferì prima a Salerno per intraprendere i primi studi di medicina e poi, negli anni Novanta del Settecento, a Napoli per completare gli studi. Pur non partecipando in prima persona alla Rivoluzione napoletana del 1799, decise di partire per Parigi. Nella capitale francese ebbe l’occasione di proseguire gli studi di medicina e di avvicinarsi alla chimica e alla mineralogia frequentando i corsi al Muséum national d’histoire naturelle. Conclusa l’esperienza in Francia, Lippi rientrò a Napoli nel 1805 con l’obiettivo di trasferire nel Regno di Napoli le conoscenze acquisite al fine «d’introduire dans la patrie les connaissances utiles qui y manquent pour le bonheur du pays, pour le lustre et pour la puissance du gouvernement» [Lippi, 1806].

In questa prospettiva, Lippi può essere definito un ‘passeurs des sciences’: un intellettuale la cui esistenza e attività è in stretto legame con i cambiamenti del ruolo del savant, la circolazione dei saperi e delle tecniche tra contesti politici, economici e sociali differenti [Bertrand, Guyot, 2011]. In altri termini, attraverso l’attività di figure come quella di Lippi, il Mezzogiorno d’Italia si impone come ‘site of mediation’, uno spazio geopolitico da cui emergono le interazioni, le interconnessioni e i legami tra spazi culturali e politici eterogenei [Burghartz, Burkhart, Göttler, 2016]. Emblematiche a riguardo le riflessioni dello scienziato salernitano, avanzate al parlamento napoletano durante il nonimestre rivoluzionario tra il 1820 e il 1821, sulla necessità di riformulare e adattare il testo della costituzione di Cadice al Mezzogiorno d’Italia per tutelare i talenti e le istituzioni scientifiche del Regno delle Due Sicilie. L’esperienza di Lippi dimostra in ultima istanza come la nozione di ‘passeurs’ non si esaurisca al solo ambito della scienza, rappresentando invece una categoria utile a comprendere l’intreccio tra dinamiche scientifiche e politiche [Bouchet, Simien, 2015]. L’indagine della natura poliforme della produzione a stampa dello scienziato salernitano, le questioni transdisciplinari che emergono dalle sue pubblicazioni, dense di riferimenti alle esperienze di viaggio in Europa, hanno in definitiva messo in evidenza i tentativi di creazione di una dimensione politica delle scienze nel Mezzogiorno d’Italia nel primo ventennio dell’Ottocento.

Al ritorno dai viaggi europei, Lippi redasse numerosi progetti inerenti alla creazione di istituti scientifici e di istruzione pubblica [ANF] [ASNa, 1785-1820]. Attento all’evoluzione della meccanica, chimica, fisica, cercò di evidenziarne le ricadute sociali ed economiche sul regno meridionale ma di fatto non trovò a Napoli degli interlocutori pronti ad ascoltarlo e fu costretto a fronteggiare l’ostilità soprattutto degli ingegneri del Corpo di ponti e strade, fortemente legati all’esigenza di difendere la loro struttura corporativa. Una evenienza che non deve sorprendere in quanto lo sviluppo della cultura tecnica nel Mezzogiorno ebbe una spinta discontinua anche negli anni del più vigoroso riformismo borbonico, nella seconda metà del Settecento, quando l’illuminismo scientifico ebbe la positiva conseguenza di stimolare il confronto sull’epistemologia delle nuove scienze [Torrini, 1987] [Galasso, 1989].

Tuttavia, rispetto ad altri personaggi chiave della cultura meridionale del XIX secolo, il profilo di Lippi non è stato indagato a fondo dalla storiografia, pur trattandosi di una vicenda che consente di mettere ulteriormente a fuoco la complessità dell’attuazione delle riforme, nei decenni centrali del XIX secolo, relative all’amministrazione, burocrazia e istituzioni scientifiche napoletane [Rao, 2009]. La partecipazione, in diverse modalità, dello scienziato salernitano al vivace dibattito politico a cavallo tra Sette e Ottocento diventa l’emblema di come la frequentazione dei circoli e delle accademie, la padronanza di ampie conoscenze e competenze tecniche abbiano facilitato la partecipazione e l’impegno politico [De Lorenzo, 2001].

Eppure, per comprendere appieno l’esperienza di Lippi, è necessario collocare i suoi progetti in un panorama più ampio che coinvolga pure le altre realtà dell’Italia preunitaria. Mettendo a confronto i programmi di modernizzazione realizzati nei diversi Stati della Penisola, a cavaliere tra XVIII secolo e XIX, è possibile infatti scorgere una continuità di idee che, pur tenendo ben presenti le caratteristiche di ciascuno di essi, accomunarono i governi italiani. Nell’epoca postnapoleonica la riforma dei saperi scientifici e delle istituzioni a essi connessi parve la via necessaria per assicurare in Italia, alla ricerca e alla sua influenza sociale, la crescita che ancora non si era verificata. Ciò appariva urgente anche in considerazione del rapido sviluppo che altrove in Europa aveva caratterizzato la scienza e le sue applicazioni pratiche, grazie ad un forte impegno di risorse pubbliche. Se già dalla fine del Settecento non erano mancati importanti contributi di scienziati italiani, soprattutto nella matematica, ma anche nella fisica, geologia e medicina, la loro attività era stata spesso segnata ovunque in Italia da isolamento e mancanza di sostegno istituzionale.

Sulla scorta delle fruttuose esperienze maturate nella politica scientifica del Piemonte, ma con il concorso di studiosi di tutta l’Italia, ovunque gli scienziati avvertirono la riorganizzazione della loro attività come uno dei compiti più importanti da svolgere da parte del potere politico [Lacaita, 2000] [Ferrone, 1988] [Ferrone, 2007]. Lippi, così come i suoi colleghi italiani, sottolineava l’esigenza di dotare la patria di appartenenza di un moderno sistema tecnico-scientifico, nonché burocratico-amministrativo. Egli notava inoltre come ancora sporadiche fossero a Napoli le collaborazioni degli ingegneri con il mondo dell’industria, che invece costituivano un fattore di crescita economica in molti paesi europei. Per invertire la rotta, era necessario far svolgere alla scienza un ruolo chiave nel processo di modernizzazione in molteplici settori, quali la pubblica amministrazione, le strutture e i mezzi di comunicazione e di trasporto, l’approvvigionamento energetico, l’agricoltura, l’industria manifatturiera, la difesa militare, la sanità e l’igiene pubblica.

Nel Mezzogiorno a ostacolare lo sviluppo e la piena attuazione di progetti innovativi ebbero un peso determinante le contrapposizioni tra gli organi centrali dello Stato e gli organismi governativi provinciali, ma pure quelle tra gli stessi scienziati. Ed è proprio facendo riferimento a tali scontri che Lippi classifica il mondo intellettuale napoletano, almeno fino agli inizi degli anni Venti dell’Ottocento, in due poli: ‘filologi’ e ‘scienziati-artisti’ [Lo Faro, 2007]. Tale separazione è utile a cogliere la compresenza nelle professioni tecniche meridionali di una doppia faccia, una rivolta al passato, ossia al mondo classico, e l’altra al futuro. E Carmine Lippi può essere considerato lo scienziato più rappresentativo di una élite professionale innovativa e dinamica la cui esperienza era stata fortemente forgiata dal confronto, attraverso il viaggio, con i grandi poli scientifici del vecchio continente, nonché dall’assimilazione delle principali culture europee e americane. Nella produzione a stampa Lippi ricordava che a certificare le competenze possedute, a considerarle indiscutibilmente valide erano stati proprio il lungo peregrinare in Europa piuttosto che le istituzioni del principe. Chi invece non aveva vissuto queste esperienze non poteva avere accesso alla comunità intellettuale e non poteva discutere di scienza.

Queste riflessioni sono dallo stesso Lippi continuamente rimarcate in alcune pubblicazioni per differenziare il suo profilo da quello dei grigi impiegati, come egli li definiva, delle direzioni amministrative napoletane, quali erano, ad esempio, gli ingegneri della Direzione di ponti e strade, istituzione completamente trasformata e stravolta rispetto all’originaria fondata da Gioacchino Murat nel 1808 [Di Biasio, 1993] [Buccaro, De Mattia, 2003] [Lippi 1815] [Lippi, 1818a] [Lippi, 1820a].

Proprio agli ingegneri di ponti e strade lo scienziato salernitano dedica una sprezzante definizione, «sono filologi e non idraulici» [Lippi, 1817], poiché, formatisi all’interno di un percorso a forte impronta classico-umanistica, non potevano accogliere le sue ambiziose intuizioni, troppo in anticipo sui tempi. L’analisi diventava netta soprattutto quando egli considerava il fallimento dei progetti e delle attività della Direzione di ponti e strade che anche negli anni immediatamente successivi al Decennio, per risolvere questioni di natura tecnica e progettuale, si rivolgeva al passato e, in particolare, alle opere idrauliche degli antichi Romani, senza comprendere le novità che venivano dai grandi paesi europei e veicolate proprio dagli scienziati viaggiatori [Lippi, 1818b] [ Parisi, 1996]. La critica di Lippi muoveva da un punto di vista tecnico ma stigmatizzava l’atteggiamento ‘antichista’ della Direzione lanciando strali su quanti avevano lodato troppo le opere idrauliche dei Romani che in realtà inducevano i ‘moderni’ in errore [De Fazio, 1816].

A parte alcuni toni eccessivi e l’amarezza per le sue delusioni professionali, l’instancabile attività e la vis polemica di Lippi aiutano di contro a qualificare i tratti caratteristici e i limiti della formazione culturale di una parte del contesto napoletano, soprattutto quello degli architetti e degli ingegneri. Inoltre, la sua particolare esperienza intellettuale, potenziata dal confronto con l’Europa, unita ad una simpatia ‘patriottica’, gli facevano guardare con interesse alla svolta costituzionale del 1820-1821, soprattutto per la riorganizzazione di alcuni settori dell’amministrazione. Simpatia ‘patriottica’ in cui l’attaccamento puro ed idealizzato alla patria rappresentava un aspetto minimo del programma politico di Lippi, laddove invece significava la condivisione dei principi di una cultura diversa, come ad esempio quella scientifica francese oppure quella politica spagnola, da riproporre e riformulare per adattarla al regno meridionale [Delpu, 2019].

Egli seguì con molto interesse il dibattito parlamentare nel quale cercò di intervenire pubblicizzando i suoi progetti. Lo spessore delle sue proposte restituisce così la figura di un intellettuale a tutto tondo con interessanti idee sull’economia politica. Il testo scritto e presentato in parlamento nel 1820, Prime idee concernenti il miglioramento delle nostre istituzioni, ne è prova: «Mai la città di Napoli ed il Regno hanno presentato tanto buon ordine e tante qualità quanto ne godiamo dal principio del governo costituzionale a questa parte» [Lippi, 1817, p. 120]. L’esordio conferma l’entusiasmo che Lippi aveva riposto nel quadro politico mutato, un’occasione per uno scienziato in cerca di nuovi spazi e di maggiore considerazione nell’ambiente politico e istituzionale del Regno. Lippi non fu direttamente eletto deputato al nuovo parlamento ma le reti di relazioni con altri scienziati napoletani e gli incontri con alcuni esponenti di prestigio della cultura politica meridionale furono l’occasione per riflettere sulle sorti del Regno delle Due Sicilie e sul governo dei Borbone. E fu proprio questa socialità ad assicurare ai suoi progetti un’adeguata attenzione che non era riuscito a guadagnare negli anni precedenti. Lippi fu ad esempio in stretto contatto con Giosuè Sangiovanni, direttore del Museo di zoologia dal 1813 ed eletto deputato nel distretto di Laurino, nell’attuale provincia di Salerno. Attraverso Sangiovanni, Lippi si avvicinò a Gaetano Bellelli, uomo di spicco dell’esercito murattiano, poi protagonista durante i moti del 1820 e infine capo del governo provvisorio di Salerno. Prendere parte a questi ritrovi fu in ultima analisi un’opportunità per farsi apprezzare, giudicare e per trovare spazi di intervento sempre più ampi nel dibattito pubblico.

Il nonimestre rivoluzionario e l’intervento nel dibattito pubblico di un uomo di scienza

Le riflessioni proposte da Carmine Lippi nei suoi progetti di riforma, pubblicati in diversi volumi tra il 1815 e il 1820, trascendevano l’aspetto più squisitamente scientifico per calarsi nell’ambito politico. Le conoscenze teoriche e le competenze tecniche, che egli aveva maturato all’estero, diventavano espressione di una scienza messa al servizio dello Stato, o meglio dovevano diventare, nelle speranze di Lippi, il collante che avrebbe legato l’attività degli scienziati al potere.

Egli si faceva portavoce di istanze innovatrici proponendo il riordinamento delle finanze di Stato, della magistratura prima ancora di considerare le istituzioni scientifiche. E l’occasione per presentare le sue proposte venne dall’insurrezione del luglio 1820 e, soprattutto, dall’insediamento del nuovo parlamento napoletano nell’agosto dello stesso anno. Parlamento che fu l’evoluzione naturale della rivoluzione del 1820-1821, un'insurrezione nazionale, formatasi ossia nel ristretto ambito di quella che è stata definita ‘nazione napoletana’, collocandosi al tempo stesso in un movimento di contestazione più ampio riguardante l’Europa della Santa Alleanza. La storiografia ne ha inoltre sottolineato il respiro transnazionale e capillare, mettendo a confronto l’episodio napoletano con le concomitanti rivoluzioni verificatesi sia nell’Europa Mediterranea (Spagna, Piemonte, Portogallo, Grecia), sia nelle colonie spagnole d'America.

A Napoli nel 1820-1821, durante il nonimestre rivoluzionario, il parlamento fu il centro della vita politica, sia attraverso l’elaborazione di leggi fondamentali, quale quella che riguardava il modello di Stato e di amministrazione del Regno, sia definendo le modifiche da apportare alla costituzione spagnola richieste dalla necessità di adattarla al particolare contesto del Regno delle Due Sicilie [Daum, 2007] [Späth, 2012] [Delpu, 2014] [Deplu, 2015a] [Delpu, 2015b]. Il parlamento napoletano procedette alla discussione sistematica della costituzione in base alle proposte di una commissione, approvando volta per volta le modifiche ritenute necessarie, dal 21 novembre al 21 dicembre 1820 [Alberti, 1926].

La Costituzione napoletana era in sostanza la traduzione della carta di Cadice elaborata in un clima politico e per uno Stato diverso da quello napoletano: questo poneva l’interrogativo fondamentale se essa potesse essere rispondente alle esigenze del paese. La scelta di seguire la falsariga di una costituzione già compiuta non favorì infatti la discussione delle caratteristiche che si volevano dare allo Stato napoletano. Anzi, a causa della rivoluzione separatista siciliana e dell’assenza dei deputati dell’isola, non fu neanche approfondito il rapporto tra le due parti del Regno, problema che tanto avrebbe pesato sulle sorti della monarchia. Lo stesso Lippi, pur percependo l’importanza del momento di rottura determinato dai fatti di Palermo, considerava il problema soltanto dal punto di vista militare, ma non ne avvertì le conseguenze politiche sulla lunga durata.

Senza dubbio, però, la costituzione spagnola, dotata di un potere attrattivo aggregante, fu quella che catalizzò le maggiori simpatie tra i ceti più dinamici della società napoletana che avevano partecipato agli episodi rivoluzionari, un successo che può essere compreso valutando pure il contesto politico-ideologico in cui era maturata la Costituzione di Cadice: la guerra combattuta dal 1808 al 1814 dagli Spagnoli contro Napoleone all’insegna dell’indipendenza nazionale e per mantenere il Regno sotto lo scettro del sovrano Ferdinando VII di Borbone.

Le vicende spagnole vennero seguite a Napoli con grande trepidazione da una parte dell’opinione pubblica che avrebbe voluto imitare l’esempio di una guerra nazionale, rivoluzionaria, condotta con metodi e strumenti militari nuovi [Scotti Douglas, 2004]. Ad ottobre del 1820, il generale Guglielmo Pepe, uno dei principali veterani della Grande Armée, nonché protagonista dell’insurrezione napoletana del luglio 1820, dichiarava al nuovo Parlamento napoletano di voler trasformare il regno meridionale «in una seconda isola di Léon» [Pepe, 1938], aggiungendo che i moti ancora in atto nel Mezzogiorno servissero a convertire il Regno delle Due Sicilie alla modernità politica incarnata dalla rivoluzione spagnola. Facendo inoltre riferimento ai luoghi simbolo delle sommosse gaditane del 1812 e del 1820, Pepe metteva sullo stesso piano le rivoluzioni della Spagna e di Napoli, presentando la prima come l’«archetipo rivoluzionario» che avrebbe ispirato i napoletani [Castells Oliván, 2004]. Guglielmo Pepe, oltre a esaltare l’esempio spagnolo, riprese dall’esperienza iberica un repertorio di azioni, di immagini e di vocaboli che importò a Napoli. E la parola «liberale», che entrò nel lessico politico del Mezzogiorno proprio a partire dal 1820, iniziò a designare le forme di opposizione e impegno patriottico atti a sovvertire il governo borbonico.

Occorre comunque sottolineare che non soltanto nel Mezzogiorno, ma negli Stati dell’area Mediterranea si assistette a un vivace confronto tra il modello politico costituzionale anglosassone e le carte costituzionali elaborate sul modello francese post-rivoluzionario [Delli Quadri, 2017]. A tal riguardo, negli ultimi anni molte ricerche si sono concentrate su una prospettiva culturale della storia costituzionale, contribuendo ad ampliare l’analisi rispetto alla tradizionale impostazione giuridico-istituzionale e a considerare la formazione di una carta costituzionale come prodotto di un dibattito più ampio che valicava quello strettamente istituzionale [Garcìa Sanz et al., 2015]. Il nuovo approccio storiografico sembra ben adattarsi alla storia costituzionale del primo Ottocento italiano ed europeo in cui la ricezione dei modelli inglese e francese nel Mezzogiorno risultò meno statica e unidirezionale anche per il diffondersi di un’attenzione trasversale verso gli sviluppi costituzionali, legata all’affermarsi di una sempre più estesa ed attiva opinione pubblica. Molti studiosi, soprattutto gli storici delle istituzioni, seppur con cautela tendono ad individuare alcuni laboratori originali di discussione circa l’elaborazione della carta costituzionale: la costituzione del Regno anglo-corso del 1794, i progetti costituzionali di Malta del 1801-1802, la carta palermitana del 1812 e quella degli Stati Uniti delle isole Ionie del 1817 [Scolfield, 1992] [D’Andrea, 2006].

La discussione attorno al progetto di costituzione del 1820 a Napoli rientra in questo fermento culturale e le riflessioni di Carmine Lippi si inseriscono perfettamente in questo clima. Lo scienziato non era esente dal fascino del testo di Cadice, da adattare però alla situazione politica del Regno delle Due Sicilie, e ne proponeva una traduzione dall’originale con emendamenti tesi a snellire le pratiche amministrative. Non la reputava inoltre perfetta ma riconosceva con estrema fermezza come quella napoletana avesse superato di gran lunga le costituzioni più famose soprattutto per la scelta monocamerale, l’unica opzione politica e costituzionale capace davvero di scardinare il peso della nobiltà e di ridurre a uguaglianza perfetta tutti i cittadini. Il testo di Cadice, ispirato alla costituzione francese del 1791, rappresentava in ultima analisi per Lippi una particolare variante del costituzionalismo monarchico a prevalenza parlamentare e in quegli anni ebbe successo proprio per questa sua caratteristica che lo contrapponeva alla Charte constitutionnelle del 4 giugno 1814, che invece divenne il modello per gli Stati europei della Restaurazione.

Tuttavia, la Costituzione di Cadice, proprio per i suoi tratti largamente democratici, non sopravvisse a nessuna delle rivoluzioni verificatesi nel 1820-1821 nell’Europa meridionale. L’esperienza costituzionale spagnola conobbe una breve stagione di successo intorno al 1820, in occasione, appunto, delle effimere rivolte occorse nell’Europa del Sud nelle quali l’introduzione del modello gaditano – sovranità popolare, suffragio universale maschile nelle elezioni primarie, parlamento monocamerale, carattere puramente sospensivo del veto del monarca, responsabilità ministeriale – portò alla formazione di un sistema costituzionale-monarchico caratterizzato da una netta prevalenza dei poteri del parlamento [Sciacca, 1998] [Novarese, 2003] [Daum, 2010].

Proprio il dibattito sul modello di costituzione a base parlamentare da dare al Regno delle Due Sicilie trovò molto spazio nel nonimestre e quasi unanimemente si scelse un sistema monocamerale, ritenuto adatto a valorizzare le richieste di pluralismo e di rappresentanza dei settori liberali e dei territori, tanto che Carmine Lippi si meravigliava con un pizzico d’ironia come «ancora tra noi ci fossero degli scioperati che hanno asserito proporre due Camere nel nostro parlamento» [Lippi, 1817, p. 80]. Lo scienziato salernitano era così fortemente convinto dell’opportunità di poggiare il sistema rappresentativo su una sola camera che accettò alcuni aspetti troppo poco laici e filo clericali del testo di Cadice che lo spinsero a coniare, non senza ironia, la bizzarra definizione di costituzione liberal-monacale:

Ho chiamato questa costituzione liberal-monacale. Liberale, perché l’utilità delle camere di rappresentanti della nazione, l’illimitata libertà di stampa e la libertà individuale rendono certamente liberale la costituzione. Monacale per l’intolleranza religiosa, che è tipica dei monaci, e anche per i tanti Te Deum e messe cantate che la costituzione prescrive doversi andar cantando dai cittadini per le parrocchie, ogni qual volta trattasi di elezioni parrocchiali, elettorali e simili [Lippi, 1818a, p. 85].

Le più importanti proposte fatte da Lippi al parlamento napoletano ruotavano intorno all’idea della razionalizzazione degli apparati amministrativi ed erano sorrette, anche se evidentemente influenzate dalle sue burrascose vicende professionali, da un impianto teorico importante e da riferimenti specifici alla dottrina Monroe, alla giurisprudenza inglese, e arricchiti da richiami puntuali a norme che tutelassero le scoperte scientifiche con la concessione di brevetti [Schneider, 1974]. Non è un caso che gli esempi menzionati venissero dal diritto dei paesi anglosassoni, considerati da Lippi un punto di riferimento politico e culturale. Un modello di Stato diverso da quello francese e continentale, a cui invece guardavano con simpatia i ceti burocratici meridionali, in cui non era l’amministrazione a garantire la felicità collettiva e un corretto funzionamento istituzionale, ma era l’individuo che, messo in condizioni di esplicare il suo talento, operava per se stesso e la nazione.

Lippi reputava indispensabile un contenimento della spesa pubblica e una gestione efficiente delle forze armate. Invitava inoltre il governo a ridurre la flotta marina, una proposta che gli procurò diversi problemi giudiziari [ASNa, 1816]. Eppure, altri esponenti di spicco dell’élite intellettuale napoletana espressero un giudizio concorde con quello dello scienziato salernitano. Carlo Afan De Rivera, direttore di ponti e strade, e Pietro Colletta avevano sollevato le medesime preoccupazioni di Lippi a dimostrazione di una sensibilità diffusa per un’organizzazione della marina non conforme al ruolo che dopo il Congresso di Vienna lo Stato borbonico aveva assunto.

Nel progetto di riforma dell’amministrazione del Regno ideato da Carmine Lippi, l’elemento centrale era rappresentato dal superamento del peso economico delle corporazioni e dei privilegi dei poteri locali e mostrava un’attenzione, spesso ossessiva, al risparmio. Senza mezzi termini, egli considerava la Direzione di ponti e strade l’emblema dello sperpero di denaro pubblico e di una gestione carente, deficitaria delle opere statali per le quali suggeriva un’organizzazione federalista e municipale. Una proposta successivamente accolta da altri funzionari e politici che guardavano con irritazione alla fisionomia decisamente centralista che Carlo Afan De Rivera aveva imposto alla Direzione [Ostuni, 1991].

Nonostante il debole peso internazionale e la precarietà politica, il Regno delle Due Sicilie intraprese un percorso autonomo di riforme e tra numerose contraddizioni le élite governative inaugurarono un vivace dibattito sull’organizzazione delle amministrazioni, anche scientifiche e tecniche, in linea con quanto accadeva da tempo in altre realtà europee e italiane investite da processi di ristrutturazione statuale. E l’ampiezza delle proposte di Lippi, nelle quali mostrava di avere un ampio bagaglio di competenze, spaziava dal governo del territorio e dalle bonifiche, alla gestione e manutenzione delle strade, finanche alla tutela dei boschi [Di Biasio, 2004], coniugando le sue capacità scientifiche con le pratiche tipiche del nuovo modus amministrandi ed esprimendo una maturità culturale plasmata su una dimensione internazionale grazie anche ai viaggi di formazione compiuti nel corso di diversi decenni. Lippi presentava insomma le caratteristiche dei ‘modernizzatori delle periferie europee’ che operavano coscientemente nei loro contesti storici, culturali e ambientali di appartenenza [Petrusewicz, 2009] [Chatzis, 2018]. Egli attribuiva un grande valore all’educazione pratica e riteneva che una buona gestione dei beni, nonché una pubblica amministrazione efficiente fossero prova di merito oltre che un dovere pubblico, denunciando al tempo stesso l’assenteismo come espressione di antipatriottismo.

Lippi intendeva dunque sfruttare, attraverso i suoi interventi al parlamento napoletano e le sue opere, gli spazi politici apertisi inaspettatamente durante la Restaurazione avanzando proposte riformatrici che promuovessero la nascita di organizzazioni statuali più moderne, caratterizzate da efficienza e laissez-faire. Le proposte di modifica della costituzione napoletana del 1820, nonché gli interventi che egli auspicava per la riforma degli apparati burocratico-amministrativi del Regno riguardavano in ultima istanza «gli oggetti fondamentali di essa [della costituzione], la libertà e la felicità della nazione [che] sono assolutamente dipendenti [e] necessari ad avere una volta per sempre salvata e rigenerata la patria. […] Se farà altrimenti, intrighi, disordini e dispotismo sorgeranno e potranno attirare alla nazione gravi malanni» [Lippi, 1818b, p. 40] [Ricuperati, 1989] [Trampus, 2008] [Rao, 2012].

L’impegno politico a difesa del talento

La formazione di un’opinione pubblica attraverso la diffusione di fogli e giornali fu uno degli elementi caratterizzanti gli anni costituzionali napoletani [Daum, 2002] [Manca, 2005]. E gli esponenti delle nuove professioni e del mondo scientifico ne furono pienamente partecipi per far circolare progetti e idee.

Il clima di maggiore partecipazione degli uomini di scienza al discorso politico trova conferma nell’attenzione di Lippi all’elaborazione della carta costituzionale che, con il suo assetto decentrato e federalista, avrebbe potuto favorire la rottura di alcuni schemi consolidati e rendere più accessibile per gli homines novi la partecipazione alla gestione della macchina burocratico- amministrativa statale. Alle suggestioni anticorporativiste si sovrapponevano, nei progetti dello scienziato salernitano, le richieste di ridefinizione della distribuzione della spesa pubblica tra la capitale e le province e si valorizzavano le personalità provenienti dal mondo provinciale che avevano compiuto percorsi importanti di formazione culturale e di impegno politico. Le esigenze economiche, burocratiche ed amministrative delle province trovano molto spazio nelle riflessioni di Carmine Lippi nelle quali emergono frequenti riferimenti, in molti casi polemici, al ruolo di Napoli destinata a «prosciugare tutte le province».

Il paradigma interpretativo di Lippi si estendeva pure alla situazione politica del Regno non soltanto degli anni Venti dell’Ottocento ma anche precedente. E nella distanza di un’ampia parte della popolazione dall’apparato statale andavano cercate, a suo avviso, le contraddizioni che avevano scatenato gli episodi rivoluzionari nel passato e quelli che si erano conclusi con la proclamazione del parlamento napoletano. Restavano inoltre intatti i contrasti e le diffidenze tra le élite scientifiche e culturali del Regno e la restante parte della società. L’ampiezza dei settori che subirono passivamente la modernizzazione dello Stato contribuì così a spiegare il disinteresse del paese per il crollo del regime costituzionale avvenuto nel marzo 1821. Secondo Lippi infatti il riordinamento della società in una nuova gerarchia di valori, l’assetto del territorio che avrebbe dovuto organizzarsi intorno a centri provinciali investiti di importanti funzioni politico-amministrative, attraverso un diverso rapporto tra capitale e periferie, richiedevano tempi lunghi per concretarsi e non erano dunque sufficienti i pochi mesi di vita del parlamento napoletano, così come non lo erano stati i dieci anni della dominazione napoleonica.

L’organizzazione delle strutture amministrative preposte alla formazione scientifica e alla direzione delle attività produttive e di gestione del territorio, nonché la loro configurazione all’interno della nuova Carta rappresentano in definitiva il nodo centrale su cui Lippi costruisce le sue riflessioni e gran parte della sua produzione editoriale. In linea con una diffusa sensibilità antiministeriale, propone un’organizzazione statale leggera che valorizzi le intelligenze e le personalità con una formazione scientifico-culturale innovativa [Spagnoletti, 2004]. In questo senso è rilevante l’emendamento proposto all’articolo 172 per attribuire norme e tutele eccezionali ad autori di scoperte scientifiche rilevanti:

L’articolo 172 n. 9 in cui è detto che non può concedere il re nessun privilegio esclusivo a persone, né a comunità alcuna ha bisogno di un’eccezione che potrà essere così concepita, aggiungendo al detto nove così: nulla di meno potrà il re accordare privilegi esclusivi per oggetti d’invenzioni, relativi alle scienze ed all’industria come per edizioni, di libri, di stampe e di disegni per istrumenti meccanici, fabbriche e manifatture d’ogni genere, non esistenti nel regno, sian siffatti oggetti e invenzioni proprie degli autori, o degli intraprenditori, sian essi d’introduzione di paesi straniere [Lippi, 1818b, p. 18].

La correzione, alla luce delle sue esperienze culturali e professionali, sembra proprio disegnata per le sue esigenze, un comma che avrebbe dovuto tutelare in ultima analisi il talento individuale dai privilegi delle «inutili» e «spesose» amministrazioni. Soltanto la competenza dello scienziato garantisce, a suo avviso, efficienza e salvaguardia dello Stato da inutili spese e sprechi; di qui la critica serrata ai corpi tecnici, troppo gelosi della loro autonomia e protagonisti di gestioni non oculate dei soldi pubblici e di pratiche discutibili e onerose per i cittadini e la Nazione.

Lippi dedica inoltre alcune pagine molto dense all’articolo 327 della Costituzione che prevede l’abolizione dell’Amministrazione di ponti e strade e l’affidamento dei lavori pubblici a Consigli municipali creati ad hoc, sgravando cosi le casse statali «di una spesa significante pel risparmio di soldi di tanti ingegneri ed impiegati». Tante infatti sono «le somme di danaro malversate sotto la salvaguardia di questa rovinosa amministrazione». Pur avendo sostenuto la svolta politica del 1806 e guardato con fiducia al corso politico giuseppino e poi murattiano, egli valuta i rischi dell’adozione dell’assetto politico centralista alla francese, a parer suo, inadeguato alla situazione del Regno. Un sistema che avrebbe rischiato di favorire dei segmenti corporativi dell’apparato statale e logiche familistiche, bloccando così energie produttive che negli anni Venti dell’Ottocento stavano venendo fuori soprattutto dalle realtà provinciali. Gli ingegneri della Direzione di ponti e strade non tarderanno a farsi sentire per difendere l’importanza e il buon nome della loro istituzione, nonché il suo ruolo nevralgico [De Fazio, 1820].

Il confronto tra le due idee di organizzazione statale e amministrativa emerge ancora più forte nella discussione costituzionale: da un lato i sostenitori – gli uomini dell’amalgama murattiani ed ex borbonici – del rafforzamento di un ordinamento centralista attraverso una consistente concentrazione di potere nelle amministrazioni; dall’altro, seppur con sfumature, settori politici democratici ma soprattutto portatori di interessi locali, emarginati dal nuovo corso della monarchia amministrativa, interpreti di una linea federalista caratterizzata da amministrazioni snelle e da richieste di decentramento.

In sintesi, le proposte di Lippi, presentate al parlamento napoletano e pubblicate in alcune sue opere, delineano un piano di razionalizzazione dell’amministrazione e dei corpi burocratici la cui confusione di competenze e moltiplicazione impropria rischiava di penalizzare le potenzialità economiche e la funzionalità di un Regno che avrebbe potuto raggiungere ottimi livelli produttivi ed essere protagonista nel panorama scientifico italiano ed europeo. Le sue riflessioni mettono a nudo, grazie anche all’importante produzione scritta e all’instancabile attività di pubblicizzazione, le difficoltà di confrontarsi con buona parte degli esponenti delle accademie scientifiche e dell’amministrazione napoletane.

Scienza, politica e istituzioni nel volgere del dibattito costituzionale

La ricchezza della prospettiva di analisi di Carmine Lippi sul Mezzogiorno e le riforme amministrative da attuare, mettendo spesso a confronto le principali realtà europee come la Francia, l’Inghilterra e il Regno delle Due Sicilie, sottolinea lo spessore di uno scienziato plasmato dai viaggi all’estero e dal confronto con contesti economici, sociali e tecnico-scientifici diversi da quello meridionale. Una ricchezza che metteva in evidenza inoltre la capacità innovatrice di un uomo di scienza e smentiva al tempo stesso l’idea di un Mezzogiorno ‘periferia’ d’Europa, inteso ossia come spazio di conservazione, di tradizione e di chiusura alle proposte di cambiamento. Esso appariva invece come spazio sociale, culturale e tecnico-scientifico dinamico e mutevole, caratterizzato da rapporti di potere e pratiche di opposizione in continua evoluzione.

Al centro delle riflessioni di Lippi, proposte principalmente nei due scritti Ultime parole pel bene della patria e Prime idee concernenti il miglioramento delle nostre istituzioni, pubblicati nel biennio 1818-1820, figurava il Corpo di ponti e strade, uno dei lasciti più fecondi della politica riformatrice attuata nel Regno di Napoli durante il decennio francese. Nell’interpretazione dello scienziato salernitano una delle priorità del governo borbonico sarebbe dovuta essere la riforma del Corpo, la cui attività nell’epoca post-murattiana si svolse all’insegna della contrapposizione tra organi centrali e consigli provinciali, di un clima politico incerto data la presenza al suo interno, come del resto in altri settori della burocrazia napoletana, di ex murattiani e di uomini più vicini ai Borbone.

L’insistenza di Lippi sulla necessità di ristrutturare il Corpo di ponti e strade si spiegava con il suo ruolo fondamentale nel processo di costruzione dello Stato amministrativo nel Regno delle Due Sicilie che nel Mezzogiorno cominciava a realizzarsi con tempi e modalità diversi dal resto d’Europa. Gli ingegneri dovevano diventare uno strumento di conoscenza del territorio e di una crescente consapevolezza geografica e ambientale nel Regno, nonché, insieme agli intendenti, agli impiegati dell’amministrazione dei servizi di Poste e Finanze, la manifestazione più concreta della presenza statale sul territorio, senza però limitare le capacità e i progetti provenienti dalle province.

Per far sì che il Corpo di ponti e strade avesse un ruolo qualificante e centrale nel processo di state building, Lippi riteneva necessario il passaggio dall’ambito militare a quello civile di una parte considerevole del personale dell’istituzioni. In questa prospettiva, il riferimento alla situazione francese è evidente: a partire dalla seconda metà del Settecento in Francia appariva netta la distinzione tra ingegneri militari e civili. La principale differenza tra il modello proposto da Lippi e quello creato in Francia stava invece nella scelta, da parte dello scienziato salernitano, della soluzione federalista.

Dalle memorie di Lippi emerge una tipologia di scrittura e di contenuti che va oltre una dimensione puramente tecnica e testimonia la nascita di un profilo amministrativo nuovo a conferma di una concezione civile del governo del territorio. Ne deriva un’idea di burocrazia che per linguaggi, intenti e ideologie rimanda per molti aspetti a esperienze europee, in particolare a quelle franco-tedesche.

Uno dei nodi fondamentali da sciogliere, di cui dovrebbe farsene carico, secondo Carmine Lippi, lo Stato, era il rapporto centro-province. La riforma dell’amministrazione e della burocrazia prevedeva nelle riflessioni dello scienziato salernitano un maggiore equilibrio tra i funzionari della capitale e quelli locali. Attraverso diversi viaggi interni verso le province del Regno, compiuti tra il 1815 e il 1820, Lippi porta alla ribalta il complicato rapporto tra la capitale e le altre realtà del Mezzogiorno, un rapporto su cui la storiografia relativa alla formazione e all’evoluzione dello Stato moderno e contemporaneo ha dibattuto a lungo negli ultimi decenni [Spagnoletti, 1988] [Chittolini, Molho, Schiera, 1994] [De Benedictis, 1994]. L’immagine che emerge dalle sue analisi è quella di un Mezzogiorno in cui da un lato esiste un territorio da uniformare e omogeneizzare, tipico della concezione amministrativa dello Stato, dall’altro uno spazio con interessi e tradizioni particolari in cui convivono tanto la difesa delle prerogative e degli interessi delle forze locali ma anche spinte alla trasformazione e modernizzazione degli assetti socio- economici e politico-amministrativi vigenti.

Con la pubblicazione delle Prime idee concernenti e delle Ultime parole pel bene della patria Lippi interviene nel dibattito costituzionale degli anni Venti dell’Ottocento e, senza mostrare alcuna esitazione, si pronuncia per una gestione federalista dei lavori pubblici e di altri settori quali la prevenzione del dissesto idrogeologico, le bonifiche, il controllo delle superfici boschive, la costruzione di una rete viaria adatta al nuovo assetto amministrativo. Schierandosi dalla parte dei sostenitori del rafforzamento di un ordinamento federalista, Lippi dichiarava con forza la necessità di concentrare le funzioni di controllo del territorio non soltanto nelle mani delle amministrazioni e della burocrazia della capitale. Nel dibattito costituzionale del 1820 l’intervento di Carmine Lippi, sulla necessità di riformare l’impianto amministrativo e burocratico del Mezzogiorno, si inseriva in ultima analisi nel quadro di formazione e di consolidamento dello Stato moderno che a Napoli ebbe inizio con il decennio francese e che ebbe come punto qualificante una nuova visione politica del territorio, un territorio che per essere governato e trasformato secondo le nuove logiche amministrative doveva essere misurato e controllato tout court, lasciando ampi spazi decisionali alle realtà provinciali.

Tuttavia, la fine dell’esperienza parlamentare a Napoli portò via con sé pure i progetti discussi da Carmine Lippi. Il 24 marzo del 1821, forte dell’appoggio dell’esercito austriaco che qualche settimane prima aveva sconfitto le truppe napoletane guidate da Michele Carrascosa e Guglielmo Pepe, Ferdinando I di Borbone riprese il controllo del Regno e dopo pochi mesi revocò la costituzione. Affidò poi al ministro di Polizia Luigi Capece Minutolo il compito di sorvegliare e di catturare coloro che a vario titolo avevano preso parte ai moti ed ai dibattiti parlamentari. Carmine Lippi fu allontanato definitivamente dalla vita pubblica e culturale napoletana, sottoposto, seppur senza conseguenze, al giudizio della Giunta di Scrutinio, nominata per esaminare la condotta politica di quanti avevano partecipato all’esperienza costituzionale. E ancora: «S.M. ordina che don Carmine Antonio Lippi sia mandato subito nella Casa de’ matti in Aversa». Era il luglio 1821. Un provvedimento regio di poche righe che esprime tuttavia la drammaticità di un atto, espressione dell’ennesimo cambiamento politico nel Regno delle Due Sicilie, volto a colpire un uomo di scienza sgradito al re e agli ambienti intellettuali meridionali. Personaggi influenti ai quali Lippi si era opposto nelle sue lunghe invettive, pubblicizzate nei dibattiti parlamentari del nonimestre rivoluzionario, avevano avuto un peso determinante nell’isolamento sociale e culturale dello scienziato salernitano. Francesco de Vito Piscicelli, direttore del Corpo di ponti e strade più volte attaccato frontalmente da Lippi, così come Teodoro Monticelli, uno dei più importanti naturalisti napoletani, furono i primi, insieme a Saverio Macrì, medico di corte, Ferdinando Pistilli e Giuseppe Melograni, geloso compagno di viaggio di Lippi, a proporre al sovrano la necessità di rinchiudere lo scomodo e insolente collega nella Casa de’ matti. Saverio Macrì, ad esempio, fu il medico che visitò Lippi e stilò la relazione con cui dichiarava di averlo trovato in uno «stato di profonda ipocondria e non già positiva demenza» [ASNa, 1820].

Dopo un breve periodo di ‘cura’ al frenocomio aversano, Lippi fu prima condotto in un ospedale napoletano e poi abbandonato in una locanda. Morì il 31 agosto 1823. La sua vita, che riecheggia tra le carte d’archivio e tra le sue opere a stampa, si era consumata in un lungo volgere di anni densi di cambiamenti, ricca di vicende personali, segnata dalla passione e dalla partecipazione politica, caratterizzata infine da una inesauribile sete di conoscenza e dalla tensione costante ad acquisire i nuovi frutti del dibattito internazionale. Le sue riflessioni costituiscono in fondo il fedele taccuino di quelle esperienze e la testimonianza efficace di un’epoca di intense trasformazioni nella interazione fra sfera politica e discorso scientifico.

Fonti d’archivio

ADH, 1785 = Archives Départementales de l’Hérault, Instruction publique, Sciences et arts, Luis venereae historia quam Regiae Academiae Monspelii, C. Antonius Lippi, fs. D 179, f.li 155-263.

ANF = Archives Nationales de France, Instruction publique, fs. F/17/1455.

ASNa, 1785-1820 = Archivio di Stato di Napoli, Ministero e Segreteria degli Affari Interni, I inventario, fs. 994, f.lo 3; Ivi, fs. 1017, f.lo 3; Ivi, II inventario, fs. 2002, f.lo 85; Ponti e Strade, II s., fs. 307/1, Carminantonio Lippi a S. E. il Sign. Generale Camprendon Direttore generale dei Ponti e Strade, Napoli 16 giugno 1809; Ivi, II serie, fs. 9, incart. 5- 8; Consiglio Generale della Pubblica Istruzione, fs. 542, f.lo 3; Polizia Generale, I numerazione, b. 110; Ministero e Segreteria degli Affari Interni, II inventario, fs. 2002, f.lo 85.