N.2 2025 - Scientia | Online first

Navigazione dei contenuti del fascicolo

Corpo luminoso e corpo opaco: aspetti dell'Optica in Giordano Bruno

Francesco Andrietti

Università degli Studi di Milano francesco.andrietti@unimi.it

Received 02/05/2025 | Accepted 20/07/2025 | Published online 09/12/2025

Abstract

Nella Cena de le ceneri e nel De immenso emergono alcune delle considerazioni più interessanti sulla fisica della luce in Giordano Bruno, in particolare quelle riguardanti la visibilità dei corpi luminosi e opachi, che si possono riassumere in tre ‘leggi’. La prima delle quali, come vedremo, è accoglibile; la seconda è altrettanto corretta, anche se la spiegazione che Bruno ne dà, esclusivamente geometrica, diverge da quella corrente; la terza, pur avendo una sua validità se applicata a corpi di piccole dimensioni, non potendosi estendere alla fisica celeste finisce col risultare paradossale e per questo è stata, ed è tuttora, fortemente contestata. Ciò nonostante la teoria optica di Bruno contiene elementi di interesse e di novità che non sembrano essere stati adeguatamente individuati e valorizzati dagli studiosi. Così come non è stata sinora sottolineata la correlazione tra le indagini ottiche e quelle relative alla geometria che Bruno andava sviluppando nello stesso torno di tempo.

English abstract

The examination of La cena de le ceneri and of De immenso shows some aspects of Giordano Bruno’s ‘optics’, in particular those concerning the visibility of luminous and opaque bodies, which can be traced back to three ‘laws’. The first of them is certainly acceptable; the second is equally correct, even if the explanation that Bruno gives, exclusively geometric, is different from today’s one; the third is valid only for small bodies: it is conceivable that Bruno, by unduly generalizing this particular situation, has arrived at the paradoxical results which are rightly contested. This does not prevent its ‘optics’ from containing elements of interest and novelty which do not seem to have been adequately recognized by commentators. Finally, a possible connection is considered between the geometry that Bruno was developing in the same years and his optical investigations.

Per scaricare l'articolo in pdf visita la sezione "Risorse" o clicca qui.

Prescindendo dal significato che la ‘luce’ assume in ambito ontologico all’interno della filosofia bruniana [vedi, ad esempio, Carannante, 2014], ma limitandomi a prendere in considerazione solo il suo aspetto fisico (argomento che non sembra avere finora suscitato particolare interesse da parte degli studiosi), intendo qui affrontare quelle nozioni di ottica che, nella Cena de le ceneri, Giordano Bruno iniziò a delineare in modo originale. Le sue osservazioni in merito ai corpi opachi e luminosi sono cadute nel dimenticatoio e, quando ricordate, vengono stigmatizzate come erronee. Per fare un esempio, già Guillaume Libri commentava: «ses ouvrages renferment les erreurs les plus singulières en géométrie. Lisez, par example ce qu’il dit dans la Cena delle Ceneri, sur la manière dont un corps lumineux éclaire les autres corps» [Libri, 1841, p. 145, nota 2].

A mio parere, invece, le nozioni di ottica esposte da Bruno sono interessanti e degne di qualche attenzione. Ed è quanto mi propongo di fare qui di seguito.

La cena de le ceneri (1584)

Nel terzo dialogo dell’opera si dice che:

… da l’apparenza de la quantità del corpo luminoso non possiamo inferire la verità della sua grandezza né di sua distanza; perché, sí come non è medesma raggione del corpo opaco e corpo luminoso, cossí non è medesma raggione d’un corpo men luminoso ed altro più luminoso e altro luminosissimo, acciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro. La mole d’una testa d’uomo a due miglia non si vede; quella molto piú piccola de una lucerna, o altra cosa simile di fiamma, si vedrà senza molta differenza (se pur con differenza) discosta sessanta miglia; come da Otranto di Puglia si veggono al spesso le candele di Avellona, tra’ i quai paesi tramezza gran tratto del mare Ionio. Ognuno, che ha senso e raggione, sa che, se le lucerne fussero di lume più perspicuo a doppia proporzione, come ora son viste ne la distanza di settanta miglia, senza variar grandezza, si vedrebbero ne la distanza di cento quaranta miglia; a tripla di ducento e diece: a quatrupla di duecento ottanta, medesmamente sempre giudicando ne l’altre addizioni di proporzioni e gradi; perché più presto della qualità e intensa virtú de la luce, che de la quantità del corpo acceso, suole mantenersi la raggione del medesmo diametro e mole del corpo. [Bruno, 1955, p. 92-93].

Dell’intero brano citato, la parte più rilevante è quella inerente al rapporto tra grandezza, distanza e luminosità dei corpi celesti: «da l'apparenza de la quantità del corpo luminoso non possiamo inferire la verità de la sua grandezza né di sua distanza». Infatti, essa dovrebbe servire a confutare l’obiezione di Osiander (che, a sua volta, confutava Copernico), per cui Venere non poteva girare intorno al Sole perché, in tal caso, sarebbe stata più luminosa quando più vicina, meno quando più lontana dalla Terra.

In una nota ad una ormai datata edizione inglese della Cena a cura di Gosselin e Lerner, vengono additati gli ‘errori’ di Bruno: «His calculation is in error […] since the apparent brightness of a light depends not inversely on the distance, but inversely on the square of the distance. He seems to imply, furthermore, that the precise law relating apparent distance to distance depends on the intrinsic brightness itself, which is inconsistent with his arithmetic calculations» [Bruno, 1977, p. 166, nota 2].

La prima critica è senz’altro da accogliere. Egualmente la seconda, che mostra un’evidente contraddizione o incoerenza tra il ragionamento aritmetico di Bruno, a proposito della distanza a cui il corpo luminoso è visibile, e l’affermazione «perché più presto della qualità e intensa virtú de la luce, che de la quantità del corpo acceso, suole mantenersi la raggione del medesmo diametro e mole del corpo», un’anticipazione di ciò che sarà ripetuto più volte nelle pagine successive riguardo al diverso effetto della distanza sulla percezione dei corpi luminosi od opachi.

È però possibile argomentare contro l’affermazione di Gosselin e Lerner, quando accusano Bruno di «confusing actual diameter with apparent angular diameter» [Bruno, 1977, p. 167, nota 4], in quanto sembra chiaro che per «diametro e mole del corpo» Bruno intenda la sua dimensione apparente. Quel che Bruno sembra voler affermare è che la dimensione apparente di un corpo luminoso non dipenda tanto dal suo diametro o grandezza reale «quantità» [Guzzo, Amerio, 1956, p. 234, nota 2], quanto dall’intensità della sua luce. Quindi può apparire più vicino se più luminoso.

Per Bruno vi è una sostanziale differenza nel modo in cui cambia la grandezza apparente dei corpi opachi e di quelli luminosi (lucidi) (in quest’ultima categoria bisogna includere anche i corpi riflettenti, come il pianeta Venere): «Anzi vi dico de piú, che, essendo ch'il corpo lucido non perde il suo diametro se non tardissima- e difficilissimamente, e il corpo opaco, per grande che sia, facilissimamente e improporzionalmente il perde» [Bruno, 1955, p. 99].

Si son così già delineate due ‘leggi’ che caratterizzano l’‘ottica’ dei corpi luminosi e opachi:

a: non si può giudicare la distanza o la grandezza di un corpo luminoso dal suo aspetto («da l’apparenza de la quantità del corpo luminoso»);

b: il corpo luminoso, aumentando la distanza, «perde il suo diametro», cioè diminuisce la sua grandezza apparente, più lentamente di quello opaco, come viene detto più volte nella Cena [Bruno, 1955, p. 99-102].

Ma esiste un’altra possibilità, alquanto paradossale (Fig. 1):

Or vedete, come un corpo luminoso minore può illuminare piú della mittà d'un corpo opaco piú grande. Dovete avvertire quello che veggiamo per esperienza. Posti dui corpi, de' quali l'uno è opaco e grande, come A, l'altro piccolo lucido, come N, se sarà messo il corpo lucido nella minima e prima distanza […] verrà ad illuminare secondo la raggione de l'arco piccolo C D, stendendo la linea B 1. Se sarà messo nella seconda distanza maggiore, verrà ad illuminare secondo la raggione de l'arco maggiore E F, stendendo la linea B 2; se sarà nella terza e maggior distanza, terminarà secondo la raggione de l'arco piú grande G H, terminato dalla linea B 3. Dal che si conchiude che può avvenire che il corpo lucido B, servando il vigore di tanta lucidezza che possa penetrare tanto spacio, quanto a simile effetto si richiede, potrà, col molto discostarsi, comprendere al fine arco maggior che il semicircolo; atteso che non è raggione che quella lontananza, ch'ha ridutto a tale il corpo lucido che comprenda il semicircolo, non possa oltre promoverlo a comprendere di vantaggio […] però, sí come per progresso de distanza dalla corda minore C D è andato a terminare la corda maggiore E F e poi la massima G H, la quale è diametro; cossí, crescendo piú e piú la distanza, terminarà l'altre corde minori oltre il diametro, sin tanto ch'il corpo tramezzante non impedisca la reciproca vista de gli corpi diametralmente opposti [Bruno, 1955, p. 98-99].

Fig. 1 - Dalla Cena de le ceneri: Dialogo terzo.

Il ragionamento di Bruno, ovviamente distante dalle leggi dell’ottica, è che, poiché con il crescere della lontananza della fonte luminosa dal corpo opaco (supposto circolare o sferico) aumenta anche l’arco che ne viene illuminato, a una certa distanza esso dovrà necessariamente superare la semicirconferenza, permettendo alla luce di oltrepassare il corpo opaco.

La fisica indica tutt’altra ragione: all’aumentare della distanza gli archi illuminati andranno effettivamente crescendo, ma si faranno più prossimi tra loro convergendo, al limite, verso il valore della semicirconferenza. Si tratta però di un processo che comporta un ‘progresso all’infinito’ di termini infinitesimi (la differenza tra gli archi consecutivi) che non collima con la metafisica, la fisica e la matematica di Bruno. Così, la distanza di Bruno dalla teoria scientifica ha finito col suscitare negli studiosi anche considerazioni venate da ironia. Come, ad esempio: «Here follows one of the most astonishing ‘scientific’ arguments of Bruno» [Bruno, 1975, nota 40 del terzo dialogo]. Una riflessione più costruttiva risale a Romano Amerio ed è ricordata sia da Hilary Gatti [Bruno, 2018, p. 261, nota 29], sia da Giovanni Aquilecchia [Bruno, 2002, p. 502, nota 36]: «Questa affermazione paradossa, su cui trasvolano i commentatori, riceve qualche senso plausibile se la si connetta non con la fisica, ma colla metafisica bruniana dell’infinito. All’infinito infatti il punto luminoso non pure è presente a una parte, ma a tutte le parti» [Guzzo, Amerio, 1956, p. 238, nota 1].

Il ragionamento di Bruno dovrebbe spiegare perché «il corpo tramezzante [maggiore] non impedisca la reciproca vista de gli corpi diametralmente opposti», dato che la luce, proveniente da una sorgente abbastanza lontana, può oltrepassarlo. È questo fenomeno (peraltro assai discutibile, come si vedrà) che, con ogni probabilità, si deve intendere per «veggiamo per esperienza», nella terza riga del passo della Cena appena citato, e non certo che «un corpo luminoso può illuminare più della mittà di un corpo opaco più grande».

Subito dopo Bruno riprende l’argomento relativo a un corpo opaco visto a distanze progressivamente crescenti, e quindi sotteso a un angolo visivo sempre minore:

Ed è necessario al fine, che l'angolo sii tanto acuto (perché nella fisica divisione d'un corpo finito è pazzo chi crede farsi progresso in infinito, o l'intenda in atto o in potenza) che non sii piú angolo, ma una linea, per la quale dui corpi visibili oppositi possono essere alla vista l'un de l'altro, senza che in punto alcuno, quel ch'è in mezzo, vaglia impedire; essendo che questo ha persa ogni proporzionalità e differenza diametrale, la quale nei corpi lucidi persevera. Però si richiede che il corpo opaco, che tramezza, ritegna tanta distanza da l'un e l'altro, per quanta possa aver persa la detta proporzione e differenza del suo diametro… [Bruno, 1955, p. 99-100].

Si tratta di una concezione in accordo alla geometria ‘discreta’ che Bruno svilupperà nelle opere successive, ma probabilmente, in abbozzo, già presente da anni alla sua mente. Essa utilizza come base un punto geometrico, un ‘minimum’, piccolissimo ma non privo di dimensione come quello euclideo. Di conseguenza, pure i diversi enti geometrici che tali punti verranno a costituire non saranno mai infinitesimi: così la lunghezza di un segmento o di un arco di circonferenza, così l’ampiezza dell’angolo compreso tra due linee rette, che non possono avvicinarsi tra loro indefinitamente («nella fisica divisione d'un corpo finito è pazzo chi crede farsi progresso in infinito»). Sotto questo valore non si può andare, ed esse dovranno essere considerate, a tutti gli effetti, coincidenti. In questa situazione anche il corpo opaco, tangente alle due rette, «ha persa ogni proporzionalità e differenza diametrale». Non potrà quindi opporre alcun ostacolo, se pur di dimensione maggiore, alla visibilità del corpo luminoso che si trova dall’altra parte: «Concludesi, dunque, che un corpo maggiore, il quale è piú atto a perdere il suo diametro, benché stia per linea rettissima al mezzo, non impedirà la prospettiva di dui corpi quantosivoglia minori, pur che serbino il diametro della sua visibilità, il quale nel piú gran corpo è perso» [Bruno, 1955, p. 101].

A conferma di quanto va dicendo Bruno propone una specie di prova sperimentale:

Qua, per disrozzir uno ingegno non troppo sullevato, a fin che possa facilmente introdurse a comprendere la apportata raggione e per ammollar al possibile la dura apprensione, fategli esperimentare ch'avendosi posto un stecco vicino a l'occhio, la sua vista sarà di tutto impedita a veder il lume de la candela posta in certa distanza: al qual lume quanto piú si viene accostando il stecco, allontanandosi da l'occhio, tanto meno impedirà detta veduta, sin tanto che, essendo sí vicino e gionto al lume, come prima già era vicino e gionto a l'occhio, non impedirà forse tanto quanto il stecco è largo. Or giongi a questo, che ivi rimagna il stecco, ed il lume altrettanto si discoste: verrà il stecco ad impedir molto meno. Cossí, piú e piú aumentando l'equidistanza de l'occhio e del lume dal stecco, al fine, senza sensibilità alcuna del stecco, vedrai il lume solo. Considerato questo, facilmente quantosivoglia grosso intelletto potrà essere introdutto ad intendere quel che poco avanti è detto [Bruno, 1955, p. 101].

Cioè lo stecco, quando è vicino all’occhio, farà sì che «la sua vista sarà di tutto impedita», mentre, quando è prossino al lume, «non impedirà forse tanto quanto il stecco è largo». Si tratta di due risultati del tutto ovvi. Se, invece, lo stecco è equidistante dal lume e dallo stecco, «verrà il stecco ad impedir molto meno», fino a permettere («aumentando l’equidistanza») la vista del lume «senza sensibilità alcuna del stecco». Tale situazione merita un’indagine più approfondita.

De immenso (1591)

Bruno riprende l’argomento nel De immenso, l’altra opera che si occupa dell’ottica dei corpi luminosi/opachi, in particolare nel quinto capitolo del quinto libro intitolato Cur soles non eclypsentur, et quod intermediante maiore opaco non sequatur eclypsatio («Perché i soli non si eclissino e perché, anche se si frappone un corpo opaco più grande, non ne segua l’eclissi»): «La distanza attenua prima il corpo opaco. Se esso si viene a trovare tra l’occhio e la luce visibile, posto ad una uguale distanza tra i due estremi, in modo che da una parte e dall’altra venga meno l’orbita visibile, accadrà invece che, come se nulla vi fosse frapposto, la luce ugualmente si espanda in linea retta con i suoi raggi distesi ed i corpi vicendevolmente si colpiscano» [Bruno, 1879, p. 336]; [Bruno, 2013, p. 515, modificato].

Il ragionamento dello stecco viene ripetuto, questa volta sostituito da un «ventrosum quamvis hominem» («un uomo ben panciuto»). Questa modifica è importante, in quanto chiarisce come il corpo opaco intermedio possa essere più grande della fonte luminosa senza per questo impedirne la vista: «Metti a seimila passi da me la luce di una fiamma che non sia maggiore di un palmo e a tremila passi poni un uomo ben panciuto, collocato in mezzo tra l’occhio e la luce: senza dubbio la luce rimarrà qual’è o poco minore, ma dell’uomo non rimarrà alcun segno» [Bruno, 1879, p. 337]; [Bruno, 2013, p. 515, modificato].

Si può dunque aggiungere una terza legge alle precedenti:

c: un corpo opaco, anche se più grande di un oggetto luminoso, non ne impedirà la vista quando posto a una distanza sufficiente da quest’ultimo e dall’occhio.

Nel De immenso, oltre a confermare quanto già detto nella Cena de le ceneri a proposito del diverso effetto che la distanza esercita sul corpo opaco e lucido [Bruno, 1879, p. 336, 338, 345], si afferma che esso dipende pure dal colore:

Il volgo non conosce le leggi per cui è visibile un corpo luminoso, a differenza di un corpo opaco. Noi rendiamo possibile la conoscenza di molte cose e facciamo svanire l’incubo e le nebbie dei molti fantasmi che asservono l’ingegno, poiché qui formuliamo talune considerazioni delle quali la prima è che il corpo opaco non si attenua con una medesima legge, indifferentemente se è di un colore o di un altro, allorché vien meno alla vista, se si trova lontano: infatti, un colore eccita il senso più di un altro. In secondo luogo il corpo luminoso non attenua, seguendo l’ordine proprio del corpo opaco, il diametro del suo corpo con l’aumentare della distanza: la fiamma infatti è visibile a molte miglia con la stessa grandezza, mentre non v’è alcun segno di un corpo opaco, per quanto grande sia […] Non è dunque possibile determinare la grandezza maggiore e minore di un corpo e di un globo in base alla grandezza che si presenta dinanzi agli occhi, senza tener conto del fatto che questo o quel corpo luminoso è visibile secondo tali differenze anche in rapporto al colore [Bruno, 1879, p. 338-339]; [Bruno, 2013, p. 516, modificato].

Per quanto riguarda, invece, il fatto che il corpo opaco, anche se più grande del corpo luminoso, non lo nasconda, quando messo a opportuna distanza, viene ancora detto (Fig. 2):

… sia A il corpo minore e luminoso; B quello maggiore ed opaco: poiché quest’ultimo non dista più del tratto AB, il corpo luminoso A sarà occultato per la parte opposta secondo le due linee AK comprendenti il corpo B sotto l’angolo KAK. Se il corpo opaco si allontanasse di più da quello fisso minore, secondo la distanza AC, allora, poiché il diametro del corpo opaco o meno luminoso va attenuandosi per la distanza, esso sarebbe compreso dall’angolo LAL; così, gradatamente, se si allontanasse di più il corpo, secondo la distanza AD, sarebbe compreso dall’angolo MAM; secondo la distanza AE, diminuirebbe della medesima quantità; allorché fosse in G, sarebbe minore, in H, minimo; in I, nullo. Per cui è chiaro che quanto più diminuisce l’ampiezza dell’angolo tanto più la luce del corpo A illumina la parte opposta, mentre il suo oscuramento, ovvero eclissi, ad opera del corpo opaco, va riducendosi, finché, oltre un certo limite, ad esempio secondo la distanza AH, l’oscuramento della luce è nullo. Se qualcuno, dal punto I, guardasse verso la luce, non avrebbe alcun indizio della presenza del corpo opaco B. A tanta distanza, quale è rappresentata da AI, il corpo opaco maggiore si vanifica, mentre il corpo luminoso A apparirà alquanto assottigliato, passando dalla grandezza della circonferenza 1 1 alla grandezza della circonferenza 2 2. Se si pone il corpo opaco, che si trova frapposto tra l’occhio I e il corpo luminoso A, più vicino ad I, come ad esempio in H‚ G, F, E, allora il corpo opaco, a seconda della maggiore o minore vicinanza, più e meno, eclisserebbe quello luminoso e tanto più quanto maggiore fosse l’angolo che il corpo vicino determina nell’occhio con la base maggiore del suo diametro. D’altra parte, se al corpo luminoso fosse contiguo il corpo opaco o maggiore o uguale o per caso minore, in modo da cadere negli angoli di ampiezza maggiore, allora, secondo l’ampiezza di questi angoli (e accrescendosi viene a proiettare le ombre, la cui base è nel corpo opaco e il vertice nell’infinito, sale verso I amplificandosi sempre di più), il corpo luminoso subirebbe dal più vicino corpo opaco oscuramenti più o meno rilevanti. Fa’ attenzione a quanto dico: ciò accade negli angoli di maggiore ampiezza poiché le eclissi, secondo la linea infinita ABCD, non si hanno certo in angoli di qualsiasi ampiezza. Infatti, il corpo opaco che è in C, come nell’eclittica, causa l’eclissi della Luna per l’orbita e per l’occhio che si trova in D, come per la Terra, ma un’eclissi molto minore per chi si trova in E, minima per chi si trova in H, nulla per chi si trova in I. [Bruno, 1879, p. 339-341]; [Bruno, 2013, p.516-517, con qualche modifica].

Fig. 2 - Dal De immenso: Libro V, Cap. 5.

Il ragionamento è, però, fallace: è vero, infatti, che, all’allontanarsi del corpo opaco B, maggiore di A, verso C, D, E, F (e G, H, non rappresentati nella Fig. 2), l’angolo al vertice A si restringe, ma il cono d’ombra che esso produce sarà sempre sufficiente a oscurare il corpo luminoso A per un osservatore che si trovi a qualunque distanza da esso, come nel punto I (non rappresentato in Fig. 2). La schermatura non sarà completa solo se la larghezza del corpo opaco è particolarmente piccola e comunque minore della distanza interoculare (vedi Appendice). Certamente questo non avviene nei casi astronomici.

La spiegazione di Bruno, di non facile lettura, ricorda almeno in parte il ragionamento adottato nell’illustrare la Fig. 1 della Cena [Bruno, 1955, p. 98-99], come osservato anche da Aquilecchia [Bruno, 1955, p. 160, nota a riga 12]. Questa volta non è però la parte illuminata, quella che si prende in considerazione, ma il cono d’ombra che il corpo opaco proietta dietro di sé. Allontanandosi dal corpo luminoso, il cono si restringerà, a parere di Bruno, fino al punto di convergere davanti all’occhio dell’osservatore e non causare più alcuna eclissi del corpo luminoso. Siamo in presenza di una difficoltà analoga a quella discussa a proposito della Fig. 1, cioè di non accettare un ‘progresso all’infinito’ di termini infinitesimi (in questo caso la differenza tra gli angoli al vertice del cono d’ombra), tanto da preferire la soluzione che si è riferita.

Un altro elemento complica ulteriormente le cose: il fatto che «il diametro del corpo opaco o meno luminoso va attenuandosi per la distanza [da quello luminoso]», come è chiaramente indicato dalla Fig. 2. Sembra che qui Bruno effettivamente confonda la dimensione apparente con quella reale del corpo opaco, cadendo, secondo Gosselin e Lerner, in una svista grossolana.

Geometria e ottica in Giordano Bruno

L’esame delle opere di Bruno porta spesso a imbattersi in argomenti di carattere matematico e geometrico. Ad esse sono stati dedicati diversi studi, che però interessano per lo più aspetti molto generali del pensiero matematico e geometrico di Giordano Bruno, o le connessioni con il resto della sua filosofia, o il significato che Bruno stesso attribuisce alla matematica. Molte informazioni si possono trovare nei numerosi commenti che sono stati fatti alle opere di Bruno da parte di Felice Tocco [Tocco, 1889] e, in particolare per il De triplici minimo e per la geometria bruniana, può essere di grande aiuto il lavoro di Xénia Atanassievitch [Atanassievitch, 1923]. Considerando anni più recenti, sarà opportuno consultare Giovanni Aquilecchia [Aquilecchia, 1990; Aquilecchia, 1991], Luciana De Bernart [De Bernart, 2002], Hilary Gatti [Gatti, 2012b], Luigi Maierù [Maierù, 2012a], Marco Matteoli [Matteoli, 2014]; [Matteoli, 2021]; [Matteoli, 2024], e la recentissima edizione delle opere matematiche di Giordano Bruno, tradotte e ampiamente commentate [Bruno, 2024].

Più scarsi, invece, almeno fino alla fine del secolo scorso, gli studi dedicati ad analizzare in dettaglio singoli problemi di matematica e, soprattutto, di geometria, presenti nelle opere bruniane, come si lamentava, nel 1992, Martin Mulsow [Mulsow, 1992, p. 146], anche se, negli ultimi tempi, sono apparsi alcuni lavori rivolti a singoli problemi geometrici, come, ad esempio, quelli di Gatti [Gatti, 2012a] e Maierù [Maierù, 2012b].

La ragione di ciò può essere attribuita a più di un fattore. Da una parte, come afferma Bönker-Vallon: «il pensiero matematico nel senso di Bruno non si lascia […] ovviamente ridurre a oggetti matematici isolati come numero o spazio, allo scopo di risolvere problemi aritmetici o geometrici astratti» [Bönker-Vallon, 2012, p. 501]. Un secondo motivo è probabilmente la difficoltà di interpretare gli aspetti più tecnici del pensiero matematico di Bruno quando, lasciando da parte problemi filosofici e metafisici di più largo respiro, egli scende a considerazioni geometriche particolari: le spiegazioni si fanno assai sovente contorte, spesso del tutto incomprensibili, in contraddizione l’una con l’altra, paradossali, perfino burlesche. E, in generale, appaiono assai diverse dal modo in cui questi argomenti sono solitamente trattati. Cosa che ha fatto dire ad alcuni studiosi che Bruno «n’était rien moins que mathematicien: ses ouvrages renferment les erreurs les plus singulières en géométrie» [Libri, 1841, p. 145, nota 2]. Per Felice Tocco, la matematica di Bruno altro non era che una «critica ingiusta e in se stessa contradditoria» a quella della sua epoca [Tocco, 1889, p. 169]. Più recentemente, Alexandre Koyré avrebbe affermato: «Giordano Bruno […] il ne comprend pas les mathématiques» [Koyré, 1973, p. 77-78].

Se le conoscenze matematiche non sono, per Bruno, da considerare come fini a se stesse, ma devono essere inquadrate nell’intero sistema del suo pensiero, non dobbiamo pensare che il suo interesse si sia limitato a una loro concezione generale senza entrare in questioni particolari e senza sviluppare degli algoritmi specifici. Egli dedica, infatti, una serie di lavori a illustrare una geometria diversa ed eccentrica. Alla sua origine sta la concezione del punto geometrico che, sebbene piccolissimo, è pur sempre dotato di dimensione. E della retta, non più ritenuta una successione ininterrotta di punti adimensionali come quella di Euclide, e da allora sempre utilizzata, ma una progressione lineare e discreta di punti che «contraddice le normali regole della geometria» [Matteoli, 2010, p. 442].

Si è già visto [Bruno, 1955, p. 99], ad esempio di tale peculiarità, come l’ampiezza di un angolo non possa essere minore di una certa quantità. In base alla concezione della geometria ‘discreta’ che Bruno sostituisce a quella ‘continua’ di Euclide, sotto tale valore le due rette che lo delimitano devono essere considerate coincidenti. Con la precisazione che questa impossibilità della divisione all’infinito dell’angolo (e, più in generale, della «fisica divisione d'un corpo finito») sia intesa «in atto o in potenza», forse allo scopo di controbattere quella distinzione tra infinità in atto e in potenza che Aristotele, nella Fisica, III, 5-6, aveva introdotto allo scopo, tra l’altro, di accettare la possibilità della divisione all’infinito di una grandezza, che Bruno esclude nel modo più assoluto come afferma ripetutamente.

In realtà, se si suppone che i punti geometrici, circolari ed eguali tra loro, siano disposti tangenzialmente a costituire i lati dell’angolo, il valore minimo di quest’ultimo sarebbe di 60°, come, peraltro, si trova negli Articuli adversus mathematicos (Membrum tertium, Articulus primus, § 14) e nel De triplici minimo (III.4). Una conseguenza che, forse non ancora presente a Bruno all’epoca in cui scriveva La cena de le ceneri, pur essendo coerente alla sua concezione discreta della geometria, rivela uno dei tanti paradossi cui essa può dar luogo.

Nella geometria di Bruno esiste quindi una misura ‘minima’, piccolissima ma non infinitesima, sotto la quale non si può andare: il diametro del punto geometrico. Questo significa anche che ogni processo di ‘limite’ o ‘asintotico’ è necessariamente escluso. Ed è in questo senso che si deve interpretare un altro passo [Bruno, 1955, p. 98-99], egualmente esaminato in precedenza: il progressivo aumentare, con la distanza crescente della fonte luminosa, dell’ampiezza degli archi illuminati (Fig. 1) avviene, secondo Bruno, per termini finiti, e non potrà quindi convergere al valore finito della semicirconferenza ma andrà al di là di essa.

Si tratta di un problema analogo a quello, analizzato da Maierù, del rapporto tra due linee asintotiche, che prende spunto dal Libro II, cap. 15, del De triplici minimo [Maierù, 2012b, p. 80]. Un argomento sicuramente molto interessante e dibattuto fin dall’Antichità e molto attuale all’epoca di Bruno [Maierù, 2012b, p. 91 ss.], costituito dal fatto per cui due linee possono avvicinarsi sempre più tra loro senza mai riunirsi, cosa che Bruno liquida senza remissione: «Io rimango del tutto senza parole innanzi alla loro stupidità così poco opportuna come davanti a quella di chi afferma […] che due linee che procedono all’infinito non si possono mai incontrare, sebbene si avvicinino tra loro sempre più» [Bruno, 1891, p. 234]; [Bruno, 2013, p. 136]. L’impossibilità di poter considerare linee asintotiche mostra tutta la differenza che intercorre tra una geometria continua, il cui punto non ha dimensione, e quella discreta, il cui punto ne ha una per quanto piccola. La distanza tra due linee non potrà mai, infatti, essere minore di un valore minimo: procedendo ancora esse dovranno coincidere.

Il passo menzionato di Bruno, 1955, p. 98-99, Fig. 1, si riduce egualmente a un problema di linee asintotiche. È, infatti, facile mostrare che l’arco α di cerchio compreso tra i punti di tangenza delle due rette che partono dall’occhio dell’osservatore posto a distanza x dal centro dell’oggetto (supposto di forma circolare e di raggio r), è dato da 2·arccos(r/x), il cui limite, per x→ ∞, è dato da π, cioè dal valore (in radianti) della semicirconferenza. Questa sarà la dimensione massima visibile a distanza infinita. Almeno in una prospettiva euclidea, per cui gli incrementi della funzione, all’aumentare di x, si fanno infinitesimi. Ma per la geometria di Bruno, che non riconosce la possibilità di linee asintotiche, il valore dell’arco non può arrestarsi a quello della semicirconferenza e deve sorpassarlo in quanto, aumentando x, esso dovrà crescere di quantità che non potranno mai essere minori del minimo. La lunghezza della semicirconferenza verrà così superata, e la vista potrà passare dall’altra parte del corpo opaco.

Si osservi, infine, come Giordano Bruno faccia talvolta appello alla ‘sensibilità’ per stabilire, o negare, delle proprietà geometriche. Ad esempio, quando nota come si «recedat a sensu», sbagliando, qualora si affermi che il punto di tangenza tra una retta e una circonferenza sia unico, poiché è ‘esperienza comune’ che i punti di contatto sono sempre due [Bruno, 1891, p. 234]. Perciò «melius stat sensu dogma tenendum, praecipitem errorum ne suffocere per amnem» («sarà meglio attenersi ai sensi, per non cadere nel fiume vorticoso degli errori») [Bruno, 1891, p. 231]. Qualcosa del genere si potrebbe dire nel caso di alcuni fenomeni dell’ottica: l’esperienza’ della «perdita del diametro» dei corpi opachi conferma l’impossibilità di angoli minori di un valore minimo (angolo di risoluzione), accreditando la necessità di una geometria diversa da quella euclidea.

L’‘ottica’ di Bruno confrontata con quella odierna

Bisogna innanzitutto capire bene cosa si intenda parlando di corpi opachi o luminosi. Fortunatamente Bruno è chiaro a questo proposito: si tratta di una differenza quantitativa, non qualitativa [Bruno, 1955, p. 92, 101]; [Bruno, 1879, p. 340]. Questo significa che anche le ‘leggi dell’ottica’ di Bruno dovranno essere applicate in modo graduale, a seconda che un corpo sia più o meno opaco o luminoso.

Proviamo ora a riesaminare criticamente tali ‘leggi’:

non si può giudicare la distanza o la grandezza di un corpo luminoso dal suo aspetto.

Quest’affermazione è del tutto condivisibile. Osservando un corpo luminoso a notevole distanza, specialmente di notte, quando risalta maggiormente, non possiamo far conto dell’elemento che più ci aiuta, cioè della disparità delle immagini retiniche tra i due occhi, perché troppo lontano e privo dello sfondo. Né, tantomeno, far uso d’informazioni relative alla convergenza dei globi oculari, valide solo per piccole distanze. Neppure la conoscenza che possiamo possedere della dimensione dell’oggetto, comparata con il suo diametro apparente, può servirci, perché esso è percepito come un punto adimensionale.

il corpo luminoso, aumentando la distanza, «perde il suo diametro», cioè diminuisce la sua grandezza apparente, più lentamente di quello opaco.

Per quanto non sia mai detto esplicitamente sembra probabile che, per Bruno, la dimensione apparente di un corpo opaco diminuisca proporzionalmente alla distanza secondo le leggi geometriche della prospettiva, fino a un valore minimo in cui ogni dimensione è «improporzionalmente» persa. Ma «non è medesma raggione del corpo opaco e corpo luminoso […] acciò possiamo giudicare la grandezza o ver la distanza loro» [Bruno, 1955, p. 92]. Non viene però fornita alcuna legge di questa «vera optica e geometria» riguardante la maniera in cui diminuisce il diametro apparente dei corpi luminosi, se pur ne esiste una, ma solo rilevato che tale diminuzione è molto minore di quella dei corpi opachi e variabile con il livello di luminosità.

Di fatto, qualsiasi corpo, allontanandosi dal nostro occhio, mantiene una dimensione distinguibile finché esso è visto sotto un angolo compreso tra i 30 e i 60 secondi d’arco (angolo di risoluzione). Per una lanterna che avesse una larghezza di 20 cm, questo significa che la massima distanza h a cui manterrebbe una dimensione apprezzabile sarebbe data da 20/h = 30 - 60 sec d’arco, da cui si ricava per h un valore di 20 cm/(30-60) sec d’arco = 20 cm/0.000145 rad o 20 cm/0.000290 rad, cioè un valore che oscilla tra 687 e 1.375 metri. Oltre questa distanza la lanterna, sempre che fosse ancora visibile, apparirebbe come un punto senza dimensione.

Il concetto di angolo di risoluzione non viene però dall’ottica geometrica ma dalla neurofisiologia dell’occhio, perché dipende dalla densità dei fotorecettori: fintanto che l’immagine del corpo sulla retina ne investe un certo numero si avrà la percezione della dimensione (diametro) del corpo; quando solo due adiacenti, avremo raggiunto l’angolo di risoluzione; quando uno solo, la percezione della dimensione sarà persa. Questo potrebbe ben essere il motivo per cui Bruno afferma che, almeno per quanto riguarda il corpo opaco, la perdita di diametro avviene in modo «improporzionale» [Bruno, 1955, p. 99-100]. Infatti, fino al momento in cui la distanza dell’oggetto è tale da sottendere un angolo visivo maggiore di quello di risoluzione, un ulteriore allontanamento diminuisce la dimensione apparente secondo le regole dell’ottica geometrica. Ma quando l’angolo di risoluzione è raggiunto, ogni percezione di dimensione è bruscamente annullata.

Il discorso vale sia per i corpi opachi che per quelli luminosi. Sembra quindi, a questo riguardo, che non vi sia alcuna differenza tra di essi. Perché, invece, Bruno insiste tanto su tale diversità? Mi limito a formulare un’ipotesi. L’occhio umano, come ogni insieme di lenti artificiali, è soggetto a una serie di aberrazioni tra cui, la più importante, è la cosiddetta aberrazione sferica. A causa di questa, l’immagine sulla retina di una luce lontana, anziché essere rappresentata da un punto, diventa un dischetto la cui luminosità svanisce gradualmente dal centro alla periferia e il cui raggio è proporzionale al cubo dell’ampiezza della pupilla. Il risultato sarebbe allora quello di una perdita del diametro meno netta e più graduale [Bruno, 1955, p. 99-100]. Naturalmente lo stesso fenomeno avviene anche per la luce riflessa da un corpo opaco durante il giorno. In questo caso, però, la pupilla ha un diametro assai minore che non al buio e il fenomeno dell’aberrazione sferica è molto meno evidente.

Osserviamo però che Bruno, talvolta, con «perdita del diametro» potrebbe voler intendere semplicemente la minor visibilità del corpo. In tal caso la spiegazione diventa assai più semplice, poiché, a parità di distanza, un corpo luminoso, ancorché più piccolo di un corpo opaco e ridotto a un punto di luce privo di dimensione apparente, può essere assai meglio visibile, sia perché emette una quantità di luce assai maggiore di quella che l’altro riflette, che per la maggior sensibilità dell’occhio in visione notturna. Dando così ragione di quanto detto, con un po’ di esagerazione, in Bruno, 1955, p. 92: «da Otranto di Puglia si veggono al spesso le candele d'Avellona, tra' quai paesi tramezza gran tratto del mare Ionio».

un corpo opaco, anche se più grande di un oggetto luminoso, non ne impedirà la vista quando posto a una distanza sufficiente da quest’ultimo e dall’occhio.

È l’affermazione che lascia più perplessi e che viene unanimemente contestata dagli studiosi, come, ad esempio, Hilary Gatti: «Assuming a physical concept of light as travelling in a straight line, the argument here is false. There is no way in which the light can arrive beyond the diameter of the larger opaque body» [Bruno, 2018, p. 261, nota 29]. A sua volta Felice Tocco diceva: «Erra [Bruno] solo nell’affermare che a grandissima distanza il corpo opaco non impedisca la vista del luminoso, anche quando sia d’esso maggiore» [Tocco, 1889, p. 272, nota 1].

Quanto osservano Gatti e Tocco è sicuramente corretto, quando la visione sia fatta con un occhio solo. Con due occhi le cose cambiano: in questo caso, infatti, è possibile vedere, almeno in parte, un corpo luminoso anche quando venga interposto un oggetto opaco di dimensione (leggermente) maggiore. Consideriamo, ad esempio, un corpo luminoso di 3 cm di diametro e un corpo opaco posto a metà distanza tra esso e gli occhi. È facile rendersi conto, con semplici considerazioni geometriche (vedi Appendice e Fig. 2a), che il corpo luminoso rimarrà parzialmente visibile fintanto che il corpo opaco avrà un diametro inferiore a 4,6 cm. Se poi l’oggetto opaco fosse più vicino agli occhi, potrebbe aumentare di dimensione fino a 6,2 cm (distanza interoculare). Questo è il limite oltre al quale esso schermerebbe comunque il corpo luminoso.

Non è invece corretto dire che «più e più aumentando l’equidistanza de l’occhio e del lume dal stecco, al fine, senza sensibilità alcuna del stecco, vedrai il lume solo» [Bruno, 1955, p. 101], in quanto quello che conta (vedi Appendice) è solo il rapporto tra le distanze dell’occhio dal lume e dallo stecco, non il loro valore assoluto. Un fatto, questo, che contraddice la spiegazione di Bruno basata sulla sua geometria.

Ciò che sostiene Bruno, non è, quindi, necessariamente errato: l’unica condizione richiesta è che il diametro del corpo opaco, se pur maggiore di quello luminoso, non superi il valore della distanza interoculare (vedi Appendice). Che non è certo la situazione in cui si trova l’«uomo ben panciuto» del De immenso, né quella dello ‘stecco’ della Cena de le ceneri, né tantomeno quella relativa ai fenomeni celesti. Si può ipotizzare che Bruno, partendo da quei casi in cui il corpo opaco è abbastanza piccolo da non schermare completamente il corpo luminoso, pur essendo maggiore di esso, li abbia impropriamente generalizzati a corpi di dimensione maggiore.

Discussione e conclusione

Alcuni dei discorsi di Bruno finora esaminati nascono da un problema astronomico riguardante la luminosità del pianeta Venere. In un passo dell’epistola di Andreas Osiander premessa al De revolutionibus orbium caelestium, tradotto quasi letteralmente nella Cena de le ceneri [Guzzo, Amerio, 1956, p. 231, nota 1], viene detto che, se effettivamente il pianeta girasse intorno al sole, «chi è sì cieco, che non veda quel che seguirebbe contra ogni esperienza: che il diametro de la stella [pianeta] apparirebbe quattro volte, ed il corpo della stella più di sedici volte più grande quando è vicinissima, ne l’opposito de l’auge, che quando è lontanissima, dove se dice essere in auge?» [Bruno, 1955, p. 89].

Anche qui entra in gioco l’ambiguità o equivalenza già segnalata, quando si parli di un corpo luminoso, tra luminosità (visibilità) e diametro (o superficie) apparente. Nel caso di un pianeta, poi, dato che nessun diametro può essere percepito senza l’uso di strumenti ottici, è chiaro che con questo termine si può intendere solo la luminosità, cioè la quantità di luce che giunge all’occhio, che, nell’ipotesi copernicana, a detta di Osiander, dovrebbe essere molte volte maggiore in una situazione che nell’altra.

L’‘ottica’ di Bruno dovrebbe risolvere il problema astronomico che costituisce il motivo principale per cui era stata sviluppata. Essa ci dice, infatti, che il corpo luminoso, aumentando la distanza, «perde il suo diametro» più lentamente di quello opaco (2). Questo risultato, che propriamente vale solo per corpi dotati di dimensione apparente, è esteso alla luminosità di pianeti o corpi luminosi lontani grazie all’equivalenza sopra indicata. Tutta l’argomentazione è però confusa e contradditoria, come fatto notare da Gosselin e Lerner [Bruno, 1977, p. 166, nota 2], poiché, a proposito delle luminarie che capita di scorgere attraverso il Canale d’Otranto (troppo lontane perché si possa parlare di ‘diametro’), viene sostenuto che l’intensità della luce percepita è inversamente proporzionale alla distanza, e quindi diminuisce con essa secondo una regola geometrica che non dovrebbe essere quella valida per i corpi luminosi.

Pure la legge 3 ha, sullo sfondo, un problema astronomico:

Siamo, quindi, costretti a credere che, con frequenza e simultaneamente, molte Terre si frappongano tra il nostro occhio e ciascuno di quei corpi che più distano dalle nostre plaghe. Non turbarti, sebbene le Terre superino nel numero i Soli, poiché non è sufficiente e non incide nulla il fatto che esse si interpongano e che i corpi delle Terre si radunino numerosi sotto un unico Sole, essendo dotate di un corpo opaco e tanto più piccolo […] Anche se le Terre fossero state di mole maggiore [del Sole], non avrebbero potuto oscurare niente di più [Bruno, 1879, p. 336-337]; [Bruno, 2013, p. 515, modificato].

Bruno non fa alcuna menzione delle sue conoscenze di ottica [Gatti, 2002, p. 39], ma si può dire che, anche se alcune delle concezioni da lui esposte relative ai corpi luminosi e ai corpi opachi potevano senz’altro appartenere alle conoscenze del suo tempo (legge 1 e, solo in parte, 2), esse furono da lui riformulate in un modo del tutto particolare. A questo proposito Hilary Gatti [Gatti, 2002, p. 39] fa notare la possibile influenza dell’Ottica di Alhazen, la cui traduzione in latino dall’arabo, pubblicata da Friedrich Risner nel 1572 [Risner, 1572], fu largamente usata dagli studiosi contemporanei [Gatti, 2002, p. 39; Lindberg, 1981, p. 185]. Effettivamente l’opera originale di Alhazen contiene numerosi elementi che si possono avvicinare alle concezioni espresse da Bruno, come possiamo leggere noi oggi nella traduzione dall’arabo in inglese di A.I. Sabra dei primi tre libri [Sabra, 1989]. Tali riferimenti si trovano però nel Cap. 2 del primo libro, che è omesso nell’edizione Risner (l’unica che potesse essere accessibile a Bruno), e nel Cap. 7 del terzo libro, tradotto in latino in forma riassuntiva e poco incisiva.

Gatti ricorda anche la possibile influenza di un altro autore, Jean Pena [Gatti, 2002, p. 39; per Pena vedi anche Pagnoni Sturlese, 1985, p. 317-324]. Ma gli argomenti di ottica di Pena, per quanto possano interessare la cosmologia di Bruno, non sembrano però rilevanti per il presente studio riguardante la visibilità dei corpi luminosi e dei corpi opachi.

Riassumendo i risultati del presente lavoro mi sembra possibile trarre le seguenti conclusioni riguardo alle tre ‘leggi’ identificate nella Cena de le ceneri e nel De immenso:

La prima (1), relativa al fatto che non si possa giudicare la distanza o la grandezza di un corpo luminoso dal suo aspetto, è ovvia.

La seconda (2), secondo cui il corpo luminoso, aumentando la distanza, «perde il suo diametro» più lentamente e meno bruscamente di quello opaco, è egualmente corretta, ma la spiegazione che ne dà Bruno, del tutto geometrica, è diversa da quella odierna. D’altra parte alcuni problemi, come quello dell’angolo minimo di risoluzione, sono risolvibili solo facendo uso di nozioni anatomo-fisiologiche dell’occhio. Bruno preferirà, invece, rimanere in un ambito strettamente geometrico, anche se nel campo della geometria euclidea ciò è impossibile. La soluzione doveva essere trovata con l’uso di una geometria diversa che permettesse, in modo sbagliato ma coerente al ragionamento teorico, di spiegare i fenomeni osservati.

La terza legge (3), relativa al fatto che un corpo luminoso possa rimanere visibile, se posto dietro a un corpo opaco più grande, è valida limitatamente al caso in cui entrambi i corpi siano di piccole dimensioni, come spiegato nell’Appendice. Ed è possibile che, proprio generalizzando indebitamente questa situazione particolare e facilmente sperimentabile, Bruno sia giunto alle affermazioni che gli sarebbero state giustamente contestate.

L’‘ottica’ dei corpi luminosi e dei corpi opachi non troverà alcun’eco nella scienza del periodo di Bruno. Solo molto più tardi, in tempi più vicini ai nostri, sarà presa in considerazione da alcuni studiosi, ma per essere condannata. Essi ne rilevarono gli aspetti più paradossali, che sicuramente sono presenti, senza curarsi di quelli più interessanti e innovativi. Che spero siano stati illustrati, almeno in parte, nel presente studio.

Appendice

Si indichi (Fig. 1a) con O’ e O’’ la posizione degli occhi, a distanza d tra loro; L’ e L’’ i margini esterni del lume o corpo luminoso, l la loro distanza; S’ e S’’ i margini esterni dello stecco o corpo opaco (posto davanti al lume), a distanza s > l tra loro; O, S, L il centro della distanza tra gli occhi, del corpo opaco e del lume, allineati tra loro. Siano infine hl e hs le distanze del lume e del corpo opaco da O’O’’ e si ponga x = hl/hs (1 x ∞).

Da L’ e L’’ tracciamo le perpendicolari alla retta O’O’’ e indichiamo con P’ e T’, P’’e T’’ le loro intersezioni con le rette S’S’’ e O’O’’. Congiungiamo L’ con S’ e L’’ con S’’ e prolunghiamo fino a intersecare la retta O’O’’ nei punti H’ e H’’. Sarà H’H’’ = s’ la zona in cui la vista di L’L’’ è completamente oscurata.

Perché il lume sia, almeno in parte, visibile, dovrà essere s d; avremo allora (Fig. 1a) necessariamente:

d > s’ > s > l.

Possiamo determinare, in funzione di x, quale debba essere il valore di s > l che non schermi completamente il lume, per mezzo del seguente ragionamento geometrico:

dalla similitudine dei triangoli H’T’L’ e S’P’L’, tenuto conto della simmetria della figura rispetto alla retta LO, si ricava: H’T’/S’P’ = (s’/2 – l/2)/(s/2 – l/2) = hl/(hlhs). Ma hl/(hlhs), dividendo tutti i termini per hl, si può riscrivere come 1/(1 – hs/hl) = 1/(1 – 1/x) = x/(x – 1). Sarà quindi (s’/2 – l/2)/(s/2 – l/2) = x/(x – 1).

Moltiplicando entrambi i membri dell’ultima eguaglianza per (s/2 – l/2) · (x – 1) si ottiene:

(s’/2 – l/2) · (x – 1) = x · (s/2 – l/2), da cui, svolgendo le parentesi e semplificando, si ha: (s’/2) (x – 1) = x · s/2 – l/2, da cui ancora s’/2 = (x · s/2 – l/2)/(x – 1), cioè:

s’ = (x · sl)/(x – 1).

Perché il lume sia, almeno in parte, visibile, dovrà- essere s d, ovvero:

s’ = (x · sl)/(x – 1) d, cioè x · sl d · (x – 1), quindi:

s (d · (x – 1) + l)/x, (A)

mentre il valore massimo di s = s* per (e oltre) il quale la visione del corpo luminoso sarà ancora impossibile è dato da (Fig. 2a):

s* = (d · (x – 1) + l)/x.

Si osservi che, quando la distanza tra gli occhi d è nulla, ci si riduce alla visione con un unico occhio (posto in O). In questo caso, per (A), dovrà essere s l/x e, dato che x 1, la dimensione del corpo opaco, per qualsiasi distanza, dovrà essere minore di quella del lume per non impedirne la visione.

Esaminiamo ora i diversi casi illustrati da Bruno nelle due opere prese in considerazione:

1 – corpo opaco (o stecco) molto vicino a O’O’’. In questa situazione hl >> hs, x → ∞, (d · (x – 1) + l)/x d , s e s’ praticamente coincidono, per cui, utilizzando due occhi, il corpo luminoso rimane visibile, come è ovvio, fintanto che s ~ s d. Con un occhio solo (d = 0) s dovrebbe avere un valore negativo, il che è ovviamente impossibile, e la vista del lume sarà «di tutto impedita» [Bruno, 1955, p. 101], almeno fin tanto che lo stecco avrà uno spessore maggiore di quella del foro pupillare (2 mm in visione diurna).

2 – corpo opaco (o stecco) molto lontano dall’occhio e prossimo al lume. Sarà hl ~ hs, x ~ 1 e, da (A), la visione binoculare coinciderà con quella monoculare e nessun stecco > l permetterà al corpo luminoso di rimanere visibile.

D’altra parte, se s fosse minore di l e appoggiato, o vicinissimo, al corpo luminoso, è facile comprendere come lo schermerebbe solo in parte («non impedirà forse tanto quanto il stecco è largo» [Bruno, 1955, p. 101]).

Corpo opaco tra gli occhi e il lume. Consideriamo prima il caso particolare:

3’ – corpo opaco a metà tra occhi e lume: hl = 2hs. Ponendo, in (A), x = 2, si avrà s (d + l)/2.

In questo caso, nella visione binoculare (d > 0), s* sarà maggiore di l (Fig. 2a, x = 2).

Passiamo infine al caso generale:

3 – corpo opaco in qualsiasi posizione tra gli occhi e il lume, ponendo in (A) un qualsiasi valore di x compreso tra 1 e ∞ (Fig. 2a). Dato che, per x → ∞, (d · (x – 1) + l)/xd, d sarà il valore asintotico di s*.

Si tenga presente che, nelle considerazioni fin qui svolte, i parametri che entrano in gioco per determinare il valore massimo di s sono: d, l e x = hl/hs. Non contano quindi i valori delle distanze hl, hs, ma solo il loro rapporto.

Fig. 1a – corpo opaco S’S’’(linea tratteggiata orizzontale) frapposto tra gli occhi O’, O’’ e il corpo luminoso L’L’’: ulteriori spiegazioni nel testo.
Fig. 2a – grafico di s* (ordinate: cm) per differenti valori di x = hl/hs (ascisse), d = 6,2 cm, l = 3 cm: la visione del lume è possibile per qualunque valore di s situato sotto la curva (la freccia verticale indica il caso x = 2); la retta orizzontale rappresenta il valore della distanza interoculare di 6,2 cm.