Storia della fisica e storia della scienza nella rivista Sapere negli anni Settanta
Università degli Studi di Milano-Bicocca, gianluca.pozzoni@unimib.it
Received 5/7/2024 | Accepted 21/01/2025 | Published online 30/06/2025
La ricerca che ha condotto al presente lavoro è stata finanziata dall’Unione Europea – NextGeneration EU – Missione 4, Componente 2, Investimento 1.1, in risposta al bando per progetti di ricerca di rilevanza nazionale – PRIN 2022 – Codice MUR 2022MAAYRT – Populist Landmarks – CUP: H53D23006990006. L’autore desidera ringraziare Antonio Endrizzi, Responsabile della gestione e conservazione documentale della Provincia di Como, e Flavia Safina, della Biblioteca BICF dell’Università degli Studi di Milano, per la preziosa assistenza fornita nella ricerca archivistica.
Abstract
L’articolo esamina il dibattito sulla funzione sociale della scienza in Italia negli anni Settanta, evidenziando il ruolo centrale svolto dalla rivista Sapere sotto la direzione di Giulio A. Maccacaro. Attraverso un intreccio tra approfondimento politico e sapere tecnico, Sapere si configura come spazio privilegiato per l’elaborazione di una critica alla presunta neutralità della scienza, promuovendo un approccio materialista e militante alla storia delle discipline scientifiche. Particolare rilievo viene attribuito alla storia della scienza come campo di riflessione capace di mettere in luce i nessi strutturali tra produzione scientifica e rapporti sociali nel contesto del capitalismo avanzato – sull’onda della politicizzazione che la comunità fisica, in particolare, attraversa negli anni Settanta in Europa e in Italia. Inquadrata nella congiuntura storica e politica della ‘nuova sinistra’, l’esperienza intellettuale della rivista Sapere rappresenta un momento di rottura rispetto alla tradizione storiografica precedente, aprendo la strada a un possibile canone alternativo nel panorama della storia della scienza italiana.
English abstract
This article examines the role of the journal Sapere in sparking debate over the social function of science in Italy between 1974 and 1977. By combining political critique with scientific expertise, Sapere emerged as a key platform for challenging the alleged neutrality of science and promoting a radical, materialist approach to the history of scientific disciplines. The article foregrounds the history of science as a critical tool for uncovering the structural connection between scientific production and capitalist social relations – a perspective shaped by the broader politicization of scientists, particularly physicists, in 1970s Europe and Italy. Situated within the intellectual and political milieu of the ‘New Left’, Sapere’s intellectual project marked a rupture with earlier historiographical traditions, laying the groundwork for an alternative paradigm in the historiography of science in Italy.
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Prologo
In principio fu il Lago di Como. Nel capoluogo comasco, che nel 1745 aveva dato i natali allo scienziato Alessandro Volta, si era tenuto nel settembre del 1927 un celebre congresso in occasione del centenario della morte dell’illustre concittadino. La ricorrenza non era priva di interesse per il regime fascista (allora al suo quinto anno), che nonostante i tentennamenti organizzativi vi aveva scorto l’opportunità di una legittimazione dello Stato nuovo attraverso la celebrazione del «genio italico» quale elemento costitutivo della «modernità fascista» [Cioli, 2005]. Così, sotto gli auspicî di Guglielmo Marconi e del Comitato per le onoranze a Volta presieduto da Quirino Majorana, il Congresso internazionale dei fisici riunitosi in quella occasione aveva visto l’adesione dei rappresentanti più eminenti della fisica mondiale. La lista dei presenti illustri è sterminata e include, tra gli altri, i nomi di Rutherford, Bohr, Planck, Dirac, Pauli, Heisenberg, Lorentz e Fermi. È in questa occasione, tra l’altro, oltre che nel lavoro condotto in preparazione alla relazione tenuta al congresso, che Bohr espose pubblicamente quel «principio di complementarità» intorno a cui si sviluppa l’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica [Bohr, 2005] [Bohr, 1985].
Una nuova celebrazione voltiana si era poi tenuta, sempre a Como, nel novembre 1945, questa volta per il bicentenario della nascita dello scienziato. Nella memoria che ne avrebbe conservato Edoardo Amaldi, si trattava del «primo atto di ricongiungimento dei fisici dell’Italia centro-meridionale con quelli dell’Italia settentrionale» [Amaldi, 1979, p. 195]. Promotore e animatore del convegno era stato in questo caso Giovanni Polvani, titolare della cattedra di Fisica sperimentale e direttore dell’Istituto per le Scienze Fisiche all’Università degli Studi di Milano, nonché in predicato di essere chiamato a presiedere la Società Italiana di Fisica (SIF) – carica che avrebbe mantenuto per quindici anni prima di passare a ricoprire quella di presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e infine di rettore dell’ateneo milanese. Nell’arco della sua carriera istituzionale, Polvani fu una figura estremamente influente, ed ebbe un ruolo chiave nel rilanciare la fisica italiana negli anni del dopoguerra e della ricostruzione. È sotto la sua direzione, ad esempio, che la rivista «Nuovo Cimento», organo della SIF, assurse al ruolo di «grande rivista scientifica internazionale» [Amaldi, 1979, p. 214].
All’inizio degli anni Cinquanta, Polvani fu al centro delle vicende internazionali che avrebbero portato all’istituzione del Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire (CERN), in qualità di mediatore individuato dal CNR per interloquire con il Comune di Como al fine di promuovere la candidatura della città italiana come sede alternativa alla prescelta Ginevra. Nello stesso periodo, Polvani entrò in contatto con l’Amministrazione provinciale di Como per la realizzazione di un corso estivo di fisica nella prestigiosa Villa Monastero di Varenna, sul Lago di Como, sede inutilizzata dell’Istituto italiano di Idrobiologia Dr. ‘Marco De Marchi’ [Polvani, 1969]. Grazie all’intraprendenza di Polvani, allora presidente della SIF, la sede avrebbe ospitato annualmente, a partire dal 1953, una scuola estiva capace di attrarre figure di spicco internazionale tra cui lo stesso Enrico Fermi, che vi avrebbe presenziato poco prima della sua morte nel 1954 e al quale la scuola sarebbe stata intitolata.
Dato il lustro di questo appuntamento annuale, non sorprende che anche in questo teatro dovessero riverberarsi gli echi delle tensioni interne alla comunità della fisica italiana – attraversata, nel passaggio di fase dalla ricostruzione al Sessantotto e nell’affacciarsi alla professione di una nuova e più giovane generazione, da un crescente mutamento di sensibilità, anche politica, nei confronti della pratica scientifica. Un esempio di questo mutamento è ravvisabile nella proposta di organizzare, proprio all’interno della scuola estiva, un corso dedicato alla storia della fisica – proposta poi effettivamente concretizzatasi nel 1972 [Ienna, 2024]. Si tratta, come vedremo, della trasposizione di una battaglia politica sul piano dell’indagine storica che troverà un terreno particolarmente fertile nella rivista Sapere, in cui la storia della fisica si affianca a quella delle altre scienze e, unendosi all’inchiesta militante sulle condizioni di vita e di lavoro nel capitalismo di fabbrica, contribuisce a delineare un vero e proprio paradigma di critica materialistica della scienza e della sua funzione sociale.
Perché la storia della scienza?
Il tentativo di dare maggiore spazio alla storia della fisica nelle attività istituzionali della SIF non rispondeva infatti a un’innocente esigenza di erudita completezza. Esso va inquadrato piuttosto all’interno di un più generale rinnovamento del modo di guardare alla storia della scienza maturato in ambienti più o meno assimilabili a quella che nel contesto anglofono viene designata come New Left, o ‘nuova sinistra’. Si è accennato, a proposito delle onoranze voltiane del 1927, a come la storiografia della scienza, e in particolare la celebrazione della scienza del passato, avesse potuto prestarsi nel Ventennio a finalità di legittimazione ideologica [Cioli, 2005]. Questa strumentalizzazione si collocava piuttosto agevolmente all’interno dell’immagine complessiva della scienza impostasi con l’era industriale, incentrata sul riconoscimento dell’eroico e disinteressato sforzo individuale attraverso cui il singolo genio scientifico mostra il proprio valore personale e, specularmente, il valore pubblico dei risultati conseguiti [Pancaldi, 2003, cap. 8].
All’interno di questa cornice può in ultima analisi essere ricondotta anche l’attività storiografica dello stesso Polvani – cultore in prima persona di storia della fisica e, in virtù della sua levatura istituzionale, figura di rilievo per il rilancio della storiografia scientifica italiana del dopoguerra. Le sue ricerche in questo ambito datano infatti agli anni Trenta e Quaranta e sono rivolte principalmente alla rivalutazione del contributo fornito al progresso della fisica da italiani illustri come il già citato Alessandro Volta, Ottaviano Fabrizio Mossotti e Antonio Pacinotti [Gariboldi, 2022, § 3.4.1]. La monografia che Polvani dedicò a Volta e la sua curatela delle opere del Mossotti inaugurarono peraltro due distinte collane editoriali pubblicate dalla Domus Galilaeana di Pisa (città dove Polvani si era formato), un’istituzione promossa nel 1938 da Giovanni Gentile per onorare la figura dello scienziato pisano, del quale il filosofo aveva scritto: «L’ideale scientifico di Leonardo matura nel genio di Galileo. Tra i loro due nomi si svolge il periodo più splendido e creativo della storia della scienza italiana. È nel Galilei lo stesso ardore d’indagare i segreti della natura, la stessa fede nella potenza dell’intelletto umano» [Gentile, 1968, p. 235].
Di analogo tenore anche la voce Fisica redatta da Polvani per l’opera enciclopedica Un secolo di progresso scientifico italiano (1939). Con quest’opera celebrativa del suo primo centenario, la Società Italiana per il Progresso delle Scienze intendeva continuare, nelle parole del suo Segretario generale, «la sua tradizionale missione patriottica, quella cioè, di ribadire nel popolo la coscienza della propria potenza spirituale e l’importanza della ricerca scientifica come strumento formidabile ai fini della prosperità civile ed economica della Nazione e del mantenimento del primato intellettuale, che è il prezioso retaggio dei nostri avi» [Silla, 1939, p. 17]. L’impronta mussoliniana dell’opera, il cui primo volume vede la luce nell’anno XVII dell’‘Era fascista’ e nell’anno III dell’‘Impero fascista’, si trasfonde anche nella voce compilata da Polvani, che infatti si conclude con la frase «Anche in Fisica occorre credere, obbedire, combattere» [Polvani, 1939, p. 699]. Ma per quanto riguarda più direttamente il modello storiografico proprio dell’‘era industriale’, di cui si è già detto, è da notare come la rassegna di Polvani si delinei come un’ampia panoramica del contributo apportato alla fisica da quei grandi nomi – dal già citato Mossotti fino a Marconi – che nell’arco di un secolo avevano impresso alla disciplina «il segno indelebile del loro genio» [Polvani, 1939, p. 698].
L’ingresso della storia della fisica nel contesto di Varenna (e quindi della SIF) muoveva invece da premesse radicalmente diverse. Nel promuovere questa iniziativa, il presidente della SIF Giuliano Toraldo di Francia rispondeva a sollecitazioni provenienti da una più giovane generazione di fisici – come Marcello Cini, Giovanni Jona-Lasinio, Franco Selleri e Giovanni Ciccotti – più o meno vicini alla sinistra radicale [Cini, 2011b] [Baracca, Bergia, Del Santo, 2017] [Ienna, 2024]. Non si può infatti comprendere l’approccio alla storia della fisica promosso a Varenna nel 1972 se non la si colloca sullo sfondo della critica radicale della presunta neutralità dell’attività scientifica maturata in quegli anni in ambito neomarxista. Decisiva nell’elaborazione di questa critica a livello globale era stata certamente la guerra in Vietnam, e più in generale la corsa agli armamenti negli anni della Guerra Fredda. Questi eventi, come stiamo per vedere, chiamavano in causa direttamente la comunità fisica, e la risposta di quest’ultima contribuisce a spiegare la ragione per cui proprio la storia di questa disciplina si sarebbe configurata come terreno di elezione per una più ampia discussione storica sul ruolo della scienza nella società.
Il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki aveva già acceso la preoccupazione della comunità scientifica per una possibile escalation del conflitto nucleare, che veniva sollecitata a un impegno attivo per la pace, per il disarmo, e più in generale contro le applicazioni militari della fisica atomica. Grazie soprattutto all’impegno di ex-partecipanti del progetto Manhattan (tra cui lo stesso Einstein), era sorto – negli Stati Uniti come pure sul piano internazionale – un numero vastissimo di reti, piattaforme e organizzazioni scientifiche che richiamavano la comunità scientifica alla propria responsabilità sociale nella congiuntura inaugurata dall’età atomica. Il concetto stesso di ‘responsabilità sociale’ si ritrova nel nome della Society for Social Responsibility in Science, alla cui fondazione nel 1949 aveva dato grande impulso Victor Paschkis, ingegnere meccanico di origine viennese emigrato negli Stati Uniti, dove aveva abbandonato la fede cattolica per convertirsi al quaccherismo, di cui aveva adottato i precetti pacifisti sull’obiezione di coscienza.
Ma già nel 1945, presso il Met Lab dell’Università di Chicago, dove era stato costruito il primo reattore artificiale a fissione nucleare a catena al mondo, era nato il gruppo Atomic Scientists of Chicago, presto affiliatosi alla Federation of Atomic Scientists (poi Federation of American Scientists). Lo stesso percorso aveva seguito il National Committee for Atomic Information e alla Association of Scientists for Atomic Education, anch’esso sorto con scopi di sensibilizzazione del pubblico esterno alla comunità scientifica. Sempre a Chicago era poi attivo un comitato locale affiliato al National Committee for Civilian Control of Atomic Energy e, presso il dipartimento di scienze sociali dell’Università, lo Office of Inquiry into the Social Aspects of Atomic Energy, guidato dal celebre sociologo Edward A. Shils con la consulenza del fisico Leó Szilárd, già membro di punta del progetto Manhattan.
All’inizio dell’estate del 1945, dunque prima del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, Szilárd e altri colleghi del Met Lab avevano dato vita al Committee on the Social and Political Implications of the Atomic Bomb, il quale inviò al governo di Washington un rapporto (che prese il nome dal presidente del comitato James Franck), seguito da una petizione pubblica promossa da Szilárd, per scongiurare l’uso della bomba atomica come mezzo per terminare la guerra del Pacifico. Il fallimento di questi tentativi avrebbe successivamente portato Szilárd all’ideazione, insieme ad Albert Einstein, di un Emergency Committee of Atomic Scientists, con lo scopo di raccogliere fondi da destinare ad alcune delle già menzionate organizzazioni affiliate alla Federation of American Scientists.
Dall’altro lato dell’Oceano, va poi segnalato l’operato della British Atomic Scientists Association, ma anche l’impegno pubblico del fisico Józef Rotblat (altro membro del progetto Manhattan) e del filosofo Bertrand Russell, intensificatosi a seguito della notizia della contaminazione della nave da pesca giapponese Daigo Fukuryū Maru e del suo equipaggio dopo il test nucleare Castle Bravo condotto sull’atollo di Bikini nel marzo del 1954. Grazie all’interessamento del neo-premio Nobel per la fisica Max Born e del celebre fisico francese Frédéric Joliot-Curie, a quel tempo presidente della Fédération mondiale des travailleurs scientifiques / World Federation of Scientific Workers, Russell entrò in contatto con Einstein per stilare, nel 1955, l’appello per il disarmo nucleare che sarebbe divenuto noto come Manifesto di Russell-Einstein, dal quale avrebbe preso le mosse la Pugwash Conferences on Science and World Affairs, l’organizzazione che quarant’anni dopo avrebbe vinto il premio Nobel per la pace proprio grazie al suo impegno per il disarmo [Russell, 2001, cap. 6] [Ionno Butcher, 2005]. Questa mobilitazione pubblica rappresenta un importante precedente per l’attivismo scientifico dei decenni successivi, che pur nelle sue specificità avrebbe continuato a riservare alla fisica un ruolo di primo piano.
A partire dalla metà degli anni Sessanta, la guerra del Vietnam e il movimento globale di opposizione a essa segnarono comunque uno spartiacque nella messa in discussione della ‘neutralità’ della scienza e nel richiamo alle responsabilità politiche della comunità scientifica. La resistenza delle associazioni scientifiche a prendere posizione contro il coinvolgimento statunitense nel conflitto, nonché a partecipare alla campagna contro lo sviluppo del sistema missilistico antibalistico voluto dall’amministrazione Nixon con funzioni di deterrenza anti-sovietica e anti-cinese, condusse alcuni esponenti pacifisti della comunità scientifica a dare vita all’organizzazione Science and Engineers for Social and Political Action, poi divenuta Science for the People. Le proteste studentesche nei campus statunitensi avevano poi contribuito ad accendere i riflettori sui legami tra la ricerca scientifica condotta nelle università e il cosiddetto ‘complesso militare-industriale’; quando non erano gli stessi istituti di ricerca a sviluppare i sensori del movimento del tipo usato dall’esercito statunitense in Vietnam (è il caso della Kent State University in Ohio), i college intrattenevano rapporti con industrie petrolchimiche produttrici di napalm come Dow Chemicals così come con l’aviazione statunitense, attiva nel reclutamento diretto nei campus [Moore, 2008].
Il sostegno internazionale alla causa di liberazione vietnamita e l’opposizione transnazionale all’intervento militare delle potenze imperialiste estesero al di fuori del contesto statunitense anche la contestazione del ruolo della scienza in ambito militare. Nel giugno del 1967, un collettivo di opposizione alla guerra con base nel Regno Unito, lo Stop-It Commitee, organizzò presso la sala concerti Roundhouse di Londra una Angry Arts Week sul modello di quanto già fatto alla New York University nel febbraio dello stesso anno. Questo evento di impegno artistico contro l’intervento in Vietnam includeva anche un incontro dal titolo Vietnam: The Abuse of Science (Vietnam: l’abuso della scienza) da cui nacque un gruppo scientifico di osservazione e sensibilizzazione sulle conseguenze dell’uso del gas CS in Vietnam, poi consolidatosi nella British Society for Social Responsibility in Science [Rose, Rose, 1972].
In Italia, un evento particolarmente significativo è legato alle proteste messe in atto in occasione del simposio Development of the Physicist’s Conception of Nature in the Twentieth Century, tenutosi nel settembre del 1972, in occasione del settantesimo compleanno di Paul Dirac, presso lo International Centre for Theoretical Physics (ICTP) di Miramare, nei pressi di Trieste. Il simposio vedeva infatti la partecipazione dei fisici Eugene Wigner e John Wheeler, entrambi membri del consiglio direttivo della Divisione Jason – una commissione scientifica che dal 1959 era stata segretamente incaricata dal Dipartimento della difesa statunitense della consulenza tecnica per le operazioni militari in Vietnam (in particolare per i bombardamenti), ma la cui esistenza era stata resa nota al pubblico solo nel 1971, con la divulgazione da parte del «New York Times» dei documenti top secret noti come ‘Pentagon Papers’. La contestazione al simposio, promossa da un neocostituito ‘Collettivo Indocina’, raccolse una buona adesione nella popolazione studentesca locale, senza tuttavia riuscire a fare irruzione all’interno dello ICTP [Ienna, Turchetti, 2023] [Petrossi, 2018] [Vitale, 1972].
Le vicende legate alla presenza dei membri della Divisione Jason in Europa si legano strettamente a quelle di Varenna. Tre mesi prima del simposio triestino, il fisico Murray Gell-Mann, anch’egli membro della Divisione Jason, era stato contestato dal Collectif d’Orsay, sezione locale del Collectif Intersyndical Universitaire d’action ‘Vietnam-Laos-Cambodge’, al termine di una lezione tenuta al Collège de France. Nel mese successivo, altre tensioni erano state occasionate dalla partecipazione di Gell-Mann e Wheeler alla scuola estiva di Erice, mentre nuovo dissenso era nato durante la scuola estiva tenutasi nello stesso mese a Cargese, nel sud della Corsica, a causa del rifiuto del fisico Sydney Drell di discutere in quella sede i suoi precedenti legami con la Divisione Jason. È proprio durante questa ondata estiva di proteste che si tenne a Varenna l’edizione della scuola internazionale dedicata alla storia della fisica nel XX secolo; ed è in questa stessa occasione che venne redatto anche uno Statement on Vietnam, il quale condannava i bombardamenti statunitensi contro il Vietnam del Nord e recava la firma di 58 partecipanti alla scuola estiva, tra cui i già citati Cini, Jona-Lasinio, Selleri, Ciccotti e lo stesso presidente della SIF, Giuliano Toraldo di Francia.
A Varenna, dunque, l’impegno politico di parte della comunità scientifica contro l’imperialismo e a favore dei movimenti di liberazione incrociava concretamente l’interesse manifestato dalla più giovane generazione di membri della SIF nei confronti della storia della propria disciplina. Non si tratta, tuttavia, della semplice coincidenza storica di due fattori di per sé indipendenti: al contrario, il primo contribuisce in larga misura a spiegare il secondo. Come si legge all’interno dello Statement on Vietnam,
L’impiego di scoperte scientifiche nella guerra di Indocina è di particolare significato per noi, partecipanti ai corsi del 1972 della Scuola estiva di Varenna sulla storia della fisica. Le applicazioni della scienza nella società contemporanea sono state al centro dei nostri dibattiti, e noi non possiamo ignorare la partecipazione professionale di scienziati alla condotta della guerra contro il popolo del Vietnam. Le nostre discussioni ci hanno convinto dell’impossibilità di tenere separato su questi problemi dalle nostre attività professionali.
Come detto, gli stretti legami tra le scoperte scientifiche e le loro applicazioni militari contribuirono in questa fase storica a mettere in discussione la presunta ‘neutralità’ dell’impresa scientifica rispetto alle sue applicazioni sociali. Allo stesso modo, anche l’approccio alla storia della fisica che matura in questo specifico contesto non può essere compreso senza fare riferimento alla più generale presa di coscienza di una parte crescente della comunità scientifica rispetto al proprio posizionamento sociale.
La sensibilità sviluppatasi all’interno della comunità fisica già a partire dal termine della Seconda guerra mondiale contribuisce forse a spiegare la sua maggiore attenzione alle implicazioni sociali della ricerca scientifica. In questo frangente, tuttavia, la questione non può essere ridotta al solo impegno professionale contro le applicazioni militari delle scoperte scientifiche. La stessa opposizione attiva alla guerra del Vietnam su scala globale muove più spesso da istanze internazionaliste di emancipazione caratteristiche della sinistra politica che non da un generico pacifismo trasversale alla società civile. E se, alle soglie del Sessantotto, questo protagonismo politico appare immediatamente comprensibile per quanto riguarda gli ambienti intellettuali e studenteschi e quelli operai, il peculiare attivismo delle professioni scientifiche cui si assiste in questa fase rappresenta a tutti gli effetti un’acquisizione della ‘nuova sinistra’ affermatasi in questi anni. Come diremo, il rinnovamento, anche intellettuale, delle istanze ereditate dal movimento operaio della prima metà del Novecento comportava infatti un diverso apprezzamento del ruolo strategico che i comparti tecnici si trovavano a svolgere nelle società a capitalismo avanzato. È nel quadro di questo fermento intellettuale che la rivista Sapere viene a configurarsi come una piattaforma decisiva per un più generale rinnovamento della storia della scienza quale strumento di contestazione politica.
Il ruolo della rivista Sapere
Il nuovo corso intrapreso dalla storica rivista Sapere nel 1974, con il passaggio alla direzione di Giulio A. Maccacaro, si apriva con un editoriale che chiariva immediatamente la linea adottata dalla redazione:
La nostra ipotesi è che la scienza – a due secoli dalla Enciclopedia, dalla rivoluzione borghese, dall’avvento del modo capitalistico di produzione, – sia nell’esperienza attiva o passiva e sia nel discorso implicito o esplicito di tutti gli uomini: perché di scienza è ormai fatto il potere e di potere gli uomini vivono e muoiono. Così che ‘fare scienza’ vuol dire, oggi e in ogni caso, lavorare ‘per’ o ‘contro’ l’uomo ed ogni uomo è raggiunto dalla scienza per esserne fatto più libero o più oppresso. L’organizzazione scientifica del lavoro ed il lavoro dell’organizzazione scientifica ripetono e diffondono, dalla fabbrica e dal laboratorio, un unico comando che si allarga a raggiungere ogni spazio ed ogni tempo della vita.
Distinguere, allora, tra ‘addetti’ e ‘non-addetti’ ai lavori della scienza – per riservare ai primi la proprietà del discorso da rivolgere ai secondi in modi benevolmente divulgativi – corrisponde ad una scelta di conservazione. La rifiutiamo per un’altra che riconosce soltanto ‘operatori’ ed ‘operati’ della scienza, così come del potere e, dunque, della scienza che è potere.
[…] Quale scienza per quale potere? Quale potere per quale società?
Sono queste le domande sulle quali si concentra la nostra attenzione e dalle quali vuol muovere la nostra ricerca [Basaglia et al., 1974, p. 3-4].
Questa linea rifletteva l’orientamento della redazione radunatasi attorno a Maccacaro. Lo stesso Maccacaro aveva assunto questo ruolo di direzione avendo già alle spalle una pratica fortemente militante della ricerca in ambito medico ed epidemiologico, sia per quanto riguarda l’impegno contro la sanità di classe (culminato nel Movimento di Lotta per la Salute ‘Medicina Democratica’), sia per quanto riguarda lo schieramento al fianco della causa vietnamita (con i comitati ‘Scienza per il Vietnam’) e palestinese. Nell’editoriale che apriva il numero 769 del febbraio 1974, il secondo del nuovo corso, l’impianto della rivista veniva così descritto: «una metà dedicata ad un tema di grande rilievo e di attualità sostanziale; l’altra interessata a problemi emergenti da campi diversi; tra le due inserto aperto all’ esperienza ed al discorso di base». La prima metà si sarebbe articolata in riflessioni monotematiche «intorno a un problema che è: qui ed ora, non solo nella speculazione della scienza, ma nella realtà dell’esperienza sociale». Tra i temi affrontati in questa parte: la crisi energetica, il controllo informatico, la nocività in fabbrica e sui luoghi di lavoro, le tossicodipendenze. L’inserto – che sarebbe stato dedicato di volta in volta ai temi dell’ambiente, della medicina e del lavoro in relazione con il potere – era invece pensato per essere «espropriato» dai «soggetti della lotta cui vuole offrire un'arma, certamente sottile ma forse penetrante»: «lavoratori, tecnici, studenti, gruppi, comitati e collettivi» [Sapere, 1974, p. 3].
Con questo cambio di linea editoriale, le pagine di Sapere iniziarono a ospitare sistematicamente contributi dedicati alla storia della scienza, tesi a mettere in luce i legami tra lo sviluppo delle scienze e il relativo contesto produttivo. Per le ragioni già suggerite, la storia della fisica rappresentò indubbiamente un’apripista in questa direzione; tuttavia, come si mostrerà a breve, l’indagine storiografica si declinò da subito in direzione trasversale alle varie discipline scientifiche. A partire dalla seconda metà del 1974, una serie di articoli dei fisici Angelo Baracca e Arcangelo Rossi prendeva in considerazione i nessi storici tra la cosiddetta ‘rivoluzione scientifica’ e l’ascesa della borghesia europea. Nella ricostruzione dei due autori, l’imposizione di rapporti di produzione capitalistici e lo sviluppo industriale avevano prodotto in Inghilterra una trasformazione culturale delle figure scientifiche, la cui attività si era rivolta in misura sempre maggiore alla risoluzione di problemi derivanti da esigenze tecniche, favorendo lo sviluppo della meccanica [Baracca, 1974] e della chimica e incoraggiando infine una riorganizzazione istituzionale delle discipline scientifiche in senso altamente specialistico [Rossi, 1974].
In Francia, diversamente, si sarebbe dovuto attendere la costituzione del nuovo ceto intellettuale illuministico perché il paradigma newtoniano potesse effettivamente imporsi, sebbene questo sarebbe stato accolto soprattutto come superamento razionalistico della filosofia speculativa per illuminare infine la strada al progresso sociale. Sarebbero state la Rivoluzione del 1789 e, successivamente, il Direttorio e l’età napoleonica a trasformare la scienza in una attività professionale che rispondeva a una funzione pubblica e assolveva a compiti tecnici in modo specializzato. Questa traiettoria di sviluppo seguiva le orme di quanto avvenuto in Inghilterra, dove la meccanica newtoniana aveva perso il suo carattere di ‘filosofia naturale’ complessiva per divenire un insieme di principi operativi di ricerca immediatamente applicabili a scopi pratici da parte di figure tecniche. In Francia, tuttavia, il carattere sostanzialmente indotto di questa trasformazione della scienza da parte del ceto politico preludeva alla battuta d’arresto che lo sviluppo scientifico avrebbe subito con il Secondo Impero e la conseguente intensificazione del controllo politico a scapito della libertà di ricerca [Baracca, Rossi, 1974]. Ciò avrebbe contribuito in misura non trascurabile, nella seconda parte dell’Ottocento, a favorire l’ascesa della Germania come potenza scientifico-industriale, sulla quale si avrà modo di ritornare a breve.
Con il proseguire delle pubblicazioni di Sapere nell’anno successivo, il 1975, sulle sue pagine apparve il testo in due parti di un seminario sulla storia della cosmologia tenuto da Achille Cristallini all’Università di Bologna. Al suo interno, Cristallini leggeva gli antichi sistemi cosmologici come rappresentazioni astrattizzate delle caratteristiche produttive delle società del Vicino e Medio Oriente, le quali avevano in effetti carattere eminentemente agricolo, e individuava nel successivo passaggio a concezioni proto-scientifiche una conseguenza delle trasformazioni introdotte dalla rivoluzione metallurgica e mercantile [Cristallini, 1975a] [Cristallini, 1975b]. Nel numero successivo, quello di aprile-maggio, Raffaele Falavigna, sempre dell’Istituto di Fisica dell’Università di Bologna, firmava un articolo dedicato alle radici storiche della teoria della relatività; connettendo i compiti metodologici delle varie teorie scientifiche alle esigenze produttive del loro tempo, Falavigna individuava le ragioni dell’affermazione della relatività einsteiniana alla sua capacità di risolvere la contraddizione tra elettromagnetismo e meccanica classica. Ma questo progresso che in apparenza sembra tutto ‘interno’ al dibattito scientifico veniva ricondotto alle esigenze applicative imposte alla scienza dalla produzione industriale, che nell’interpretazione di Falavigna non poteva lasciare spazio a contraddizioni interne [Falavigna, 1975a].
L’articolo entrava in dibattito con le precedenti considerazioni dedicate da Gianni Battimelli alla nascita della relatività ristretta [Battimelli, 1974], che per Falavigna peccavano di eccessivo riduzionismo nell’imputare lo sviluppo teorico della relatività ristretta a soli fattori extra-scientifici, trascurando il ruolo del criterio dell’‘obiettività’. Replicando all’articolo di Falavigna, Elisabetta Donini e Tito Tonietti notavano come lo stesso criterio di ‘obiettività’ scientifica adottato dall’autore fosse socialmente determinato ‘dall’esterno’ [Donini, Tonietti, 1975], cosa che avrebbe occasionato una successiva risposta di Falavigna [Falavigna, 1975b]. Nello stesso numero dell’ottobre 1975, Donini firmava con Giovanni Ciccotti un articolo su Sviluppo e crisi del meccanicismo, inteso come un contributo alla «comprensione del perché e di come mutano le idee nella scienza» alla luce di una messa in evidenza della «funzione sociale» della scienza stessa [Donini, Ciccotti, 1975, p. 40]. Qui, il passaggio dalla fisica classica alla teoria dei quanti veniva collocato sullo sfondo del dibattito scientifico della Germania di fine Ottocento e dell’imporsi del criterio metodologico della ‘semplicità’ in fisica – un criterio adeguato alle esigenze di integrazione tra scienza e tecnologia dettate dalla rapida industrializzazione del Paese.
Nel numero 788 del gennaio 1976, Tito Tonietti riprendeva il dibattito sui fondamenti della meccanica quantistica, ipotizzando una connessione tra l’imporsi dell’interpretazione di Copenaghen – per la quale «contano solo le correlazioni tra dati sperimentali e ciò che non è osservabile non ha ingresso in fisica e non ha senso parlarne» – e le «nuove domande economiche, politiche e sociali legate alla rottura dell’equilibrio liberista (crisi del 1929) ed al prendere corpo di forti interventi statuali sull’economia» [Tonietti, 1976, p. 22]. Queste nuove domande si sarebbero infatti tradotte nella riorganizzazione taylorista del lavoro, coerente con una direzione della ricerca scientifica interessata più alle correlazioni statistiche di dati che non alle teorie complessive. Allo stesso modo, per Tonietti, il riattualizzarsi del dibattito sui fondamenti della meccanica quantistica negli anni Sessanta doveva essere imputato, tra l’altro, a un fattore essenzialmente politico:
cit
la ventata antiaccademica che nel ’68 ha spazzato le università rimettendo in discussione il valore della cultura, ha toccato anche le scienze. Esse quindi non sono più totalmente, od almeno non da tutti, accettate per quello che appaiono o pretendono di essere, ma criticate a fondo nella organizzazione e nelle finalità. Il tentativo di mutare le scienze avendo preso atto del loro inserimento nel contesto economico, politico e sociale capitalista nasce anche da lì e dal respiro politico complessivo assunto da quelle critiche che riescono a saldarsi con la pratica operaia di questa fase dello scontro di classe [Tonietti, 1976, p. 21].
Come visto nel caso di Varenna, dunque, anche sulle pagine di Sapere la storia della fisica rappresentava un banco di prova privilegiato per la messa in discussione della ‘neutralità’ della scienza. Ma la riflessione storica promossa dalla rivista non si esaurisce certo in questo campo. Ancora nel numero del giugno 1975, Federico Marchetti allargava il quadro allo sviluppo della matematica, mostrando come le radici della geometria non euclidea risalissero alla creazione delle grandi scuole superiori nella Francia napoleonica e, dunque, ne riflettessero quella vocazione ingegneristica già sottolineata da Baracca e Russo – come testimonierebbe ad esempio la versatilità della geometria iperbolica in ambito architettonico [Marchetti, 1976]. Nel numero del settembre 1976, invece, M. Luisa Cipriani Fagioli attestava la sopravvivenza della cartografia medievale anche nell’epoca in cui l’economia feudale era già stata messa in crisi dalla rivoluzione mercantile. Per l’autrice si dimostrava così che, «anche quando i rapporti di produzione subiscono mutamenti radicali e hanno di conseguenza radicali ripercussioni a livello sovrastrutturale, le sovrastrutture non riescono comunque a prendere vita in forma di coerente sintesi culturale in quanto permangono nel loro seno le scorie delle sovrastrutture precedenti» [Cipriani Fagioli, 1976, p. 50].
Nelle pagine immediatamente seguenti, tuttavia, una rubrica dedicata a Scienza e seconda rivoluzione industriale riportava la fisica nuovamente al centro dell’attenzione riprendendo l’analisi delle trasformazioni che questa scienza aveva attraversato a cavallo tra Ottocento e Novecento. Un articolo di Angelo Baracca e Arturo Russo approfondiva il legame tra lo sviluppo della teoria dei quanti e l’affermazione industriale della Germania di fine Ottocento, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di necessità di integrare scienza e produzione. Per Baracca e Russo, erano stati essenzialmente lo sviluppo dell’industria chimica tedesca e il suo legame con le università politecniche a incentivare una ricerca di avanguardia capace di rinunciare ai presupposti della fisica classica, e in generale all’elaborazione di teorie generali, per promettere invece previsioni quantitative rapidamente utilizzabili in una varietà di settori industriali altamente specializzati, dalla medicina alla moda, dai fertilizzanti agli esplosivi [Baracca, Russo, 1976].
A questo articolo era premessa, all’interno della stessa rubrica, una breve nota in cui Marcello Cini tracciava un bilancio del lavoro collettivamente svolto su Sapere in materia di storia della scienza. Già al momento della pubblicazione del primo articolo di Baracca su I concetti di lavoro ed energia nell’Inghilterra del XVIII secolo, una introduzione di G.B. Zorzoli aveva osservato che «la riappropriazione della storia del pensiero scientifico è ancora patrimonio di pochi», mentre
la ricostruzione di una memoria collettiva, non solo per gli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto per il movimento operaio, è condizione necessaria
perché il concetto di non neutralità della scienza acquisti tutta la sua ricchezza e corposità, perché si leghi l’acquisizione pratica realizzatasi nel corso delle lotte operaie e studentesche […] ad una conoscenza e quindi coscienza dei processi storici che hanno dialetticamente legato storia della scienza e storia dei rapporti economici e sociali [Zorzoli, 1974, p. 24].
A trasformare questo obiettivo in un compito conflittuale di militanza era, per Zorzoli, il permanere di una immagine distorta della scienza nel suo complesso, spesso presentata come «un quadro armonico e coerente di acquisizioni del sapere, senza farne la storia, senza descriverne il processo faticoso e contraddittorio, i rapporti con il divenire della società» [Zorzoli, 1974, p. 24]. Questa immagine sarebbe stata prevalente soprattutto nelle facoltà universitarie a indirizzo scientifico, dal momento che il compito di forza produttiva diretta assunto dalla scienza non avrebbe potuto consentire «agli addetti ai lavori una comprensione del ruolo della scienza che potrebbe generare ed arricchire il loro antagonismo ai meccanismi di accumulazione capitalistica» [Zorzoli, 1974, p. 24]. Ecco che il compito della scienza militante doveva allora tradursi, in ambito storiografico, nel «demolire il castello di falsificazioni costruite con la complicità più o meno consapevole dell’establishment scientifico» [Zorzoli, 1974, p. 25].
Riprendendo queste considerazioni a quasi due anni di distanza, Cini ribadiva la piena cittadinanza della storia delle scienze nell’indirizzo seguito dalla rivista. Il movimento di lotta per la trasformazione dei rapporti sociali in Italia, osservava Cini, aveva il suo centro nella fabbrica ma si estendeva alla scuola, all’istruzione e al lavoro intellettuale in genere, sicché anche le figure portatrici di sapere ‘specialistico’ dovevano essere considerate a pieno titolo protagoniste del conflitto sociale. Ma soprattutto, la penetrazione dei rapporti capitalistici nelle istituzioni scientifiche ed educative si traduceva in una manipolazione ideologica del sapere stesso, la cui funzione produttiva era assicurata attraverso la sua formalizzazione in un insieme di competenze puramente tecniche. L’indagine storica, capace di rivelare la funzione sociale del sapere, diveniva quindi un passaggio chiave per «fornire al movimento di classe uno strumento necessario ad esercitare quella critica operaia alla scuola della borghesia che è momento essenziale della costruzione di una egemonia operaia sull’intera società» [Cini, 1976, p. 58].
Un nuovo canone storiografico?
La morte improvvisa di Maccacaro nel gennaio 1977 inflisse certamente un duro colpo all’esperimento intrapreso negli anni precedenti dalla rivista Sapere, la quale tuttavia mantenne una linea editoriale coerente con la precedente almeno fino all’inizio degli anni Ottanta. Nello stesso solco procedette anche la pubblicazione di contributi dedicati alla storia della scienza; la pratica intellettualmente militante di questo campo di studi sperimentata fino a quel punto si evolvette anzi fino a dotarsi, nel 1979, di una rivista appositamente dedicata a questo programma, Testi & Contesti – Quaderni di scienze, storia e società, di cui furono dati alle stampe nove fascicoli prima della chiusura definitiva nel 1983 a causa di difficoltà economiche [Rossi, 2010]. Vanno poi ricordate anche le opere monografiche che sarebbero state in seguito pubblicate dalle firme degli approfondimenti storici di Sapere [Baracca, Ruffo, Russo, 1979] [Casari, Israel, Marchetti, 1978] [Ciccotti, Toraldo Di Francia, 1978] [De Marzo, 1978] [Donini, 1982].
Come suggerito a più riprese, il significato di questa esperienza collettiva non può essere adeguatamente compreso se non lo si colloca sullo sfondo del conflitto sociale e politico maturato negli anni Sessanta. Ci si è già soffermati a lungo su come l’elaborazione di una critica materialistica della scienza abbia tratto linfa vitale dalle istanze di emancipazione del Terzo Mondo, che i movimenti ispirati alla nuova sinistra avevano portato fino al cuore del capitalismo più avanzato. Complice la politica fortemente imperialistica e anticomunistica adottata dalle potenze occidentali, nel corso degli anni Sessanta la critica alla pretesa neutralità della scienza assunse una radicalità molto maggiore di quanto non consentisse il precedente impegno per un suo uso responsabile intrapreso nell’immediato dopoguerra da frange dissidenti della comunità scientifica internazionale. Ciò su cui è ora importante concentrare l’attenzione è il fatto che questa radicalizzazione della critica comportava anche una sua evoluzione qualitativa. Come ben testimonia l’esperienza di Sapere, infatti, ad essere preso ad oggetto non era più il solo asservimento della ricerca scientifica a scopi militari, ma la funzione complessiva della scienza nel modo di produzione capitalistico.
Per cercare di comprendere questo passaggio nel modo migliore è opportuno adottare uno sguardo storico di lunga durata, collocando l’esperimento politico-intellettuale riversatosi nella rivista Sapere all’interno di quello che lo storico Sergio Bologna ha definito il «lungo autunno» [Bologna, 2019]. Adottando questa prospettiva, il Sessantotto studentesco e l’‘autunno caldo’ operaio appaiono come momenti apicali di un’unica fase apertasi con le rivendicazioni sindacali del settore elettromeccanico milanese culminate nel ‘Natale in piazza’ del 1960. Questa prospettiva di lunga durata si rivela particolarmente congeniale qui dal momento che uno degli elementi caratterizzanti di questo «lungo autunno» è proprio il coinvolgimento inedito dei comparti tecnici – ossia le professioni con una formazione chimica, fisica, biologica, informatica, ecc. – accanto a quelli operai. A ciò va poi aggiunto il contributo decisivo apportato dalla contestazione studentesca alla formazione di una nuova consapevolezza politica e deontologica nelle professioni intellettuali e/o altamente qualificate [Fontegher Bologna, 2024]. Alla luce di ciò, è possibile inserire nel medesimo orizzonte rivendicativo che caratterizza il conflitto operaio degli anni Sessanta anche le lotte sulla riforma scolastica, gli scioperi della ricerca, l’occupazione degli uffici della Snam Progetti (Gruppo ENI) dell’ottobre 1968, quella della sede romana del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e del Laboratorio Internazionale di Genetica e Biofisica (LIGB) a Napoli nel 1969, oltre che il blocco, nello stesso anno, dei laboratori del Consiglio Nazionale Energia Nucleare (CNEN).
Allo stesso modo, ben prima dell’acquisizione della rivista Sapere da parte delle edizioni Dedalo e del conseguente avvicendamento di Maccacaro alla direzione, la crescente insofferenza nei settori tecnico-scientifici aveva trovato un precoce corrispettivo teorico nelle riflessioni proposte alla metà degli anni Sessanta da Marcello Cini. In una serie di articoli pubblicati in questi anni, Cini insistette sul «ruolo della ricerca scientifica e tecnologica nel processo di sviluppo pianificato dell’economia italiana» [Cini, 2011e, p. 161] e, più in generale, «nel meccanismo di autoregolazione e di espansione di un sistema che ha come molla fondamentale la formazione del profitto nel processo produttivo» [Cini, 2011d, p. 167]. Da ciò seguiva, per Cini, la necessità di constatare «il condizionamento che le esigenze di sviluppo esercitano sul progresso della scienza e della tecnologia» [Cini, 2011a, p. 174]. Queste riflessioni rivestono particolare importanza nella misura in cui rappresentano i prodromi del successivo dibattito italiano sulla non-neutralità della scienza [Guerraggio, 2010]. Esse non si limitavano però a tradurre sul piano intellettuale una conflittualità politica già in atto. Stando allo stesso Cini, anzi, su di esse sembrano aver pesato soprattutto altri fattori: da un lato, l’insofferenza verso le posizioni più ‘scientiste’ all’interno del PCI; dall’altro, un più generale riorientamento dell’approccio marxista alla scienza su scala globale [Cini, 2011b].
Si consideri ad esempio il documento teorico che rappresenta l’atto fondativo di Science for the People, occasionato, come detto, dall’opposizione al coinvolgimento statunitense nella guerra in Vietnam. Nel documento, l’utilizzo di risorse scientifiche e tecnologiche a scopi distruttivi e repressivi veniva inquadrato all’interno della struttura capitalistica complessiva della società statunitense e, dunque, nelle strategie politiche che ne derivavano in ambito estero tanto quanto in quello domestico. La politica di potenza esercitata dagli Stati Uniti sullo scacchiere internazionale veniva infatti ricondotta a esigenze di tutela delle opportunità commerciali a fronte di un Terzo Mondo in decolonizzazione, cosa che sul piano interno si traduceva in una riorganizzazione dei processi produttivi e in un riorientamento degli investimenti. In questo quadro, si legge nel documento, la cattiva applicazione dei ritrovati della scienza rappresentava solo la coda di un processo in cui era la ricerca stessa, dipendente dal finanziamento pubblico e privato, ad essere interamente guidata e definita da interessi capitalistici [Zimmerman et al., 1972].
Anche nel resto d’Europa – in particolare in Francia e Regno Unito, ma anche in Belgio e Germania Ovest – l’opposizione di una parte crescente della comunità scientifica alla guerra in Vietnam si saldava alle istanze sollevate dalla nuova sinistra a proposito del ruolo della scienza nelle società a capitalismo avanzato [Ienna, 2020] [Rose, Rose, 2013, p. 9-14]. In Italia, come si è detto, la scuola estiva di Varenna del 1972 rappresentò uno snodo fondamentale per l’articolazione di queste istanze attraverso l’elaborazione di un nuovo approccio alla storia della scienza. Nella nota di Zorzoli che inaugurava il dibattito storiografico sulla rivista Sapere, la sua importanza veniva esplicitamente riconosciuta nei termini seguenti:
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uno dei sedimenti più fruttuosi del ’68 è stato il dibattito all’interno della Società Italiana di Fisica, che ha portato un nucleo significativo di fisici ad
affermare ed a perseguire un ricupero della storia della scienza come strumento di conoscenza e di iniziativa politica. Si tratta di un terreno relativamente nuovo per il pensiero marxista, finora affrontato in un’ottica puramente fenomenologica (senza cioè collegare la storia della scienza a quella della società) da studiosi di diversa estrazione come il Kuhn, e sicuramente nuovo per dei ricercatori scientifici [Zorzoli, 1974, p. 25].
Il riferimento al contributo apportato da Thomas S. Kuhn alla storia e alla filosofia della scienza, grazie alla sua opera del 1962 La struttura delle rivoluzioni scientifiche [Kuhn, 2009], non deve essere relegato a un’annotazione di passaggio. Ne L’ape e l’architetto – volume collettivo che raccoglie contributi di Ciccotti, Cini, de Maria e Jona-Lasinio e che rappresenta forse il punto più alto della riflessione marxista sulla scienza nell’Italia degli anni Settanta (il testo vede la luce nel 1976) – si fa riferimento all’eredità teorica di Kuhn fin dal sottotitolo, che accosta i paradigmi scientifici di Kuhn al materialismo storico. Come avrebbe ricordato Cini trentacinque anni dopo la prima pubblicazione del testo,
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il sottotitolo collocava immediatamente le tesi di Kuhn nel contesto politico e culturale di allora. Il concetto di paradigma, entrato successivamente nell’uso comune degli storici e dei sociologi della scienza e, più in generale, nel vocabolario culturale, rappresentava bene per noi […] la forma assunta in un dato momento storico dall’insieme delle conoscenze condivise da una particolare comunità disciplinare che si dedica al loro approfondimento e alla loro articolazione in direzioni diverse, senza metterne in discussione il ‘nocciolo’ (core) concettuale [Cini, 2011c, p. 240].
Al di là delle più immediate analogie di superficie che è possibile tracciare tra il materialismo storico e le tesi contenute ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, l’accostamento dei nomi di Marx e Kuhn appare effettivamente ardito, soprattutto alla luce degli opposti sospetti di relativismo e di internalismo in storia della scienza che l’opera del secondo ha suscitato nella sua ricezione. Con il beneficio della distanza storica, l’appropriazione diretta delle categorie kuhniane può apparire oggi una mossa dettata più da un tentativo di dialogo con alcuni illustri riferimenti intellettuali del tempo che non da premesse teoriche robuste. Nondimeno, e anzi per questa stessa ragione, il tentativo può essere preso come testimonianza dell’ambizione con cui gli autori de L’ape e l’architetto hanno effettivamente provato a sistematizzare in termini epistemologici, attraverso il riferimento a un autore del canone ufficiale, quell’approccio materialista alla storia della scienza di cui si è cercato qui di ricostruire alcune delle espressioni più rilevanti. Se gli assunti di fondo di questo tentativo possono essere considerati validi indipendentemente dalla sua riuscita, la strada tracciata a partire dall’esperienza della rivista Sapere ha concorso a tutti gli effetti a formare un’immagine alternativa della scienza in grado di sfidare ad armi pari quella dominante.