N.1 2025 - Scientia | Giugno 2025

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Un Trentennio di temi antropologici (1935-1967)

Claudio Pogliano

c.pogliano@museogalileo.it

Received 5/7/2024 Accepted 6/11/2024 Published online 30/06/2025

Abstract

Temi di carattere antropologico sono presenti in Sapere per l’intera durata presa in esame dall’articolo, che vuol mostrare come quell’interesse sia cambiato nel corso del tempo. Ad alimentarlo fu dapprincipio la costruzione dell’impero coloniale italiano, quando soprattutto l’Africa attirò l’attenzione, sebbene anche popoli e culture di altre aree geografiche comparissero occasionalmente. E in quel periodo era inevitabile affrontare più di una volta la questione della razza. La guerra interruppe la regolare periodicità dei fascicoli, mentre il primo quindicennio post-bellico diede spazio all’etnografia dei vari continenti, alle sorprendenti rivelazioni dell’arte preistorica e della paleoantropologia. Gli anni ‘60 imposero di affrontare il grande mutamento rappresentato dal processo di decolonizzazione e di occidentalizzazione. Fu allora che a Hoepli subentrarono le Edizioni di Comunità. Il nuovo comitato scientifico impresse al periodico un orientamento aperto a questioni sociali e politiche. Tuttavia entrò a farne parte una donna – Margherita Hack – solo nel 1967, quando la proprietà passò alle Edizioni Dedalo. Per oltre trent’anni Sapere si era servito quasi esclusivamente di un’autorialità maschile.

English abstract

Sapere has been dealing with anthropological themes throughout the period examined in this article, which aims to show how that kind of interest changed over time. It was initially fueled by the construction of the Italian colonial empire, when Africa in particular attracted attention, although peoples and cultures from other geographical areas also occasionally appeared. And in that period, it was inevitable to address the question of race more than once. The war interrupted the regular periodicity of the issues, while the first fifteen years after the war gave space to the ethnography of the various continents, to the surprising revelations of prehistoric art and paleoanthropology. The 1960s required addressing the great change represented by the process of decolonization and Westernization. It was then that Edizioni di Comunità took over from Hoepli. A new scientific committee gave the periodical an orientation open to social and political questions. Only in 1967 however, when the property was acquired by Edizioni Dedalo, did a woman – Margherita Hack – join it. For over thirty years Sapere had relied almost exclusively on male authorship.

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Il primo lustro

L’editore Hoepli inaugurò Sapere l’anno stesso in cui si stava preparando l’invasione dell’Etiopia. Di conseguenza, la maggioranza degli articoli di contenuto latamente antropologico apparsi sul quindicinale ebbero a che fare, per qualche tempo, con quelle terre e le loro genti. Com’è noto, il regime vi profuse una straordinaria quantità di mezzi, sviluppando anche una martellante propaganda a giustificazione della conquista dell’Impero.

Così, sul fascicolo di settembre 1935 Virginio Gayda – direttore del Giornale d’Italia, quotidiano spesso portavoce della linea mussoliniana – s’incaricò di acclarare, mediante statistica e storia, il bisogno e il diritto dell’Italia all’espansione coloniale. Dichiarava finita la pazienza nei confronti della condizione barbara e anarchica del territorio etiopico, che avrebbe richiesto una tutela straniera: si era assunta il compito la nazione con maggiore crescita demografica in Europa, seppur sofferente per scarsità di colonie [Gayda, 1935]. Il giovane Giuseppe Lo Duca, in seguito storico del cinema, aveva già ricordato come durante la procedura di ammissione dell’Etiopia alla Società delle nazioni la maggior difficoltà fosse consistita nella schiavitù che vi si praticava ampiamente [Lo Duca, 1935]. Sulla cui ‘tolleranza’ da parte dell’organismo internazionale (a dispetto dei suoi principi cristiani e umanitari) mise l’accento Emil Ludwig – il celebre intervistatore di Mussolini e di Stalin – in un «articolo primizia» con fotografie inedite da un libro d’imminente pubblicazione presso Hoepli e con quattro «tipi di schiavi» ritratti dal disegnatore e scultore di regime Pietro Carnerini in modo involontariamente caricaturale [Ludwig, 1935] (Fig. 1).  Anche per combattere gli orrori del regime schiavile ancora fiorente, l’Italia sarebbe intervenuta in Africa Orientale, a parere dello scrittore di mare Pino Fortini [Fortini, 1935].

Fig. 1 - «Tipi di schiavi (disegni di Pietro Carnerini).» Ludwig 1935, n. 13, p. 23.

Il cosiddetto Impero etiopico era in realtà – secondo Lo Duca – un mosaico di tribù e razze, tanto che lo stesso etimo arabo di Abissinia significava «popoli mescolati», in maggioranza cristiani ma con un sincretismo che includeva ogni sorta di demoni e poteri occulti. Una scarsa, embrionale civiltà di uomini paurosi e quindi feroci, inetti a costruire se non capanne e baracche: corredavano l’articolo di Lo Duca cinque fotografie di Marcel Griaule, che aveva da poco pubblicato i risultati di una sua missione etnologica in Etiopia [Griaule, 1934]. Ad aggiornare sul conflitto in corso, tracciando anche la breve storia del colonialismo italiano, fu il colonnello Carlo Romano, che esaltava la grandiosità dell’impresa, senza precedenti nella storia delle guerre coloniali. Il generale Graziani e le tonnellate di bombe rovesciate dagli «apparecchi» italiani stavano frustrando ogni velleità etiopica di resistenza [Romano, 1935a; 1935b].

Da entomologo «giramondo», Edoardo Zavattari aveva anche compiuto esplorazioni in Libia, e faceva conoscere come il duda, o Artemia salina, fosse un crostaceo che, pescato e preparato dalle donne Dauada in alcuni piccoli laghi del Fezzan, riusciva a sfamare i villaggi della zona. Così, un semplice fatto biologico – la presenza di quell’organismo – mostrava di avere conseguenze sociali e demografiche [Zavattari, 1935]. Come medico (già socialista) attento agli aspetti culturali e sociali della sanità, nonché collaboratore assiduo di Sapere per un ventennio, Giuseppe Alberti certificava il miglioramento nell’alimentazione dei popoli africani in generale, dovuto alla penetrazione civilizzatrice dei bianchi; assai misero invece lo stato nutrizionale degli etiopici, la cui fierezza aveva fino allora resistito alla conquista europea. Passava in rassegna i loro cibi e bevande, distribuiti in modo ineguale a seconda dei gruppi sociali: se il soldato abissino riceveva una razione abbondante di carne, i Bantu sottomessi come schiavi o i contadini Galla dovevano accontentarsi di graminacee selvatiche, dovendo consegnare tutto il raccolto di grano ai dominatori. Senza contare la mancanza assoluta di igiene e l’abitudine di mangiare con le mani, che rendeva molto frequente la contaminazione di parassiti intestinali [Alberti, 1935]. Sull’importanza della medicina tropicale, a difesa di esercito e coloni da malattie sconosciute nei climi temperati, intervenne il patologo Aldo Castellani, medico della famiglia Mussolini oltreché responsabile della sanità nella spedizione etiopica [Castellani, 1935].

Nelle annate successive non calò l’attenzione di Sapere per le vicende africane. Il colonnello Carlo Romano si compiacque della vittoria sui due fronti, somalo e tigrino, lodò le gesta di Graziani – «vecchio coloniale astuto, energico, che non dà quartiere» – e di Badoglio, che aveva stroncato l’offensiva nemica. Entusiasmava l’ufficiale che il tricolore italiano delimitasse ormai, ai primi del ‘37, i confini del nuovo impero avviato verso la «redenzione» e un superiore destino civile della sua umanità. Eliminate le residue bande di «briganti», sembrava avverarsi quanto il Duce aveva profetizzato in un suo discorso: compiuta la conquista in sette mesi, ne sarebbero occorsi molti meno per dominare quel territorio e pacificarlo interamente, grazie soprattutto alla «genialità» del viceré Graziani [Romano, 1936; 1937].

Vittorio Mariani segnalò un’opera collettiva pubblicata dalla Società geografica sull’Africa orientale, dove l’Italia sarebbe stata chiamata a suscitare una vita e un’economia nuove nonché a «restituire gli uomini a dignità». Nel libro era il geografo Roberto Almagià a occuparsi di genti e lingue, mettendo soprattutto in rilievo la primitività dei mezzi impiegati nella loro attività agricola, industriale e commerciale, mentre Corrado Zoli, già governatore dell’Eritrea, tornava sui caratteri della schiavitù, legata al prevalere del sistema feudale [Mariani, 1936]. Dopo aver delineato le peculiarità geografiche dell’acrocoro etiopico, l’africanista Paolo D’Agostino Orsini si soffermò sulla composizione razziale: gli Amhara dominanti e alcuni gruppi dominati, tutti di ceppo camitico-semitico; in prevalenza di religione copta, con minoranze islamiche, pagane ed ebraiche. Solo grazie all’unità realizzata dalla colonia e alle «civilissime leggi di Roma», gruppi fino allora ostili gli uni agli altri avrebbero potuto convivere pacificamente, non più divisi fra oppressori e oppressi [D’Agostino Orsini, 1937]. Delle abitazioni in Etiopia discusse Giacomo Mariani, mostrando la tipicità del tukul, a forma cilindrico-conica e sostenendo che per i coloni italiani andassero ideate soluzioni differenti. Il «prestigio di razza» doveva distinguerli dagli indigeni, che nulla potevano insegnare in proposito. Ci volevano case che non facessero rimpiangere quelle comode lasciate in patria, progettate dalla «genialità» propria della stirpe italica [Mariani, 1938]. Era opportuno che ogni colonia fosse una Roma in miniatura, secondo il già citato igienista Alberti, che magnificò le opere idrauliche realizzate in Libia rammentando l’antico modello romano della deductio, che insediava nuclei familiari stabili nelle regioni conquistate [Alberti, 1938].

Il primo antropologo di professione contribuì a Sapere nel ’36, benché la sua collaborazione si limitasse a quel singolo articolo. Lidio Cipriani, razzista esperto d’Africa, vi espose le atrocità inflitte ai bambini in varie realtà locali dove vigevano riti e superstizioni riguardanti la nascita. Ciò nonostante, una volta sopravvissuti, gli apparivano i più felici della terra, amati teneramente dai genitori [Cipriani, 1936]. Il danzare dei «negri» non era un fatto estetico, bensì un’operazione preliminare al combattimento, per intimidire il nemico, oppure per cattivarsi una divinità o esorcizzare spiriti maligni, celebrare un matrimonio o una sepoltura: così scrisse il poliedrico regista Anton Giulio Bragaglia, cui i selvaggi sembravano «paleopoeti» dotati di un sesto e fondamentale senso, quello del ritmo, trascurato dai biologi. Le fantasie guerriere avrebbero rivelato una speciale ferocia dell’«anima negra». Per esempio il mdundo, tipico dei Suaheli, era paragonabile alle danze carnali degli antichi e barbari Traci in onore di Cibele, come documentato dagli Edoni di Eschilo [Bragaglia, 1936]. In molti popoli africani – aggiungeva il traduttore poliglotta Giacomo Prampolini – la mistica trionfava sul raziocinio: danze e maschere erano essenziali in un culto degli antenati espresso tramite cerimonie di cui si riproducevano fotografie scattate in Nigeria dal reporter tedesco Kurt Lubinski [Prampolini, 1938]. E da esploratore di lungo corso qual era, Attilio Gatti intratteneva i lettori sui gruppi umani dell’Africa equatoriale, dopo averne già descritto, in precedenza, foresta e fauna. Fra i tipi più arretrati, i Bantu condannati dall’indolenza a una vita miserabile: solo da poco tempo le autorità congolesi ne avevano messo al bando il tradizionale cannibalismo. La mentalità infantile faceva dei Pigmei servitori ideali, mentre il fisico dei Watussi sembrava il più bello e perfetto di tutta l’Africa. Principi o capi, la loro era un’aristocrazia feudale forse figlia della civiltà egizia; la donna essendovi compagna e consigliera anziché bestia da soma come generalmente fra i neri [Gatti, 1938].

Fra il 1932 e il 1935, su iniziativa della Società geografica italiana, si erano succedute ben sette spedizioni nelle regioni del Sahara occidentale, in particolare nel Fezzan e nell’Oasi di Gat. Su terre poco conosciute si disponeva finalmente di molto materiale raccolto in volume nel 1937 e lodato su Sapere da un autore sotto pseudonimo, che apprezzò le ipotesi di Cipriani riguardanti la loro composizione razziale, fondamentalmente stabile nel tempo a causa dell’isolamento geografico [Lector II, 1938]. Una netta tendenza all’esotismo affiora da quasi tutti gli articoli sull’Africa, come per esempio da quello di Prampolini sulla Nigeria «semenzaio di stirpi», con un notevole passato culturale: negli Ioruba l’etnologo tedesco Leo Frobenius aveva identificato gli eredi della scomparsa civiltà dell’Atlantide platonica, gli unici africani che potessero competere con gli antichi Egizi quanto a sviluppo della mitologia e dell’arte plastica in bronzo e terracotta [Prampolini, 1939]. Ancora più esotica è la presentazione dei Papua della Nuova Guinea effettuata da Ugo Varni. Una regione divisa fra olandesi, tedeschi e inglesi, della cui civiltà e organizzazione sociale così poco si sapeva da render preziosa una collezione fotografica che mostrava quella gente ulotrica nel suo ambiente primitivo [Varni, 1939]. (Fig. 2-3) Sulle ‘stravaganze’ etniche indugiarono allora molti autori, presumendo di attrarre così l’interesse di un pubblico che ci si proponeva di allargare. Un aspetto, questo, che connoterà il periodico anche successivamente, stabilendo una certa continuità.

Fig. 2 - «Ragazzi che si arrampicano su di un altissimo albero di cocco dalla costa proteso verso il mare, per spiare l’apparizione di una vela: sono agili come scimmie e, a quanto appare, non temono le vertigini.» Varni, 1939, n. 105, p. 348-49.
Fig. 3 - «Danzatori nel loro costume: sulla testa, penne rosse di pappagallo, il viso dipinto con terra d’ocra; ornamenti d’osso, anche attraversanti il setto nasale perforato; hanno in mano i tamburi sui quali battono il ritmo della danza e che sono gli unici strumenti musicali.» Varni, 1939, n. 105, p. 348-49.

Che il popolo italiano costituisse una «vera identità individuale» attestò Silvestro Baglioni – fisiologo e cultore di storia della scienza – per lingua (nonostante la molteplicità dei dialetti), costumi ed educazione, ma altresì per caratteri antropologici e costituzionali, ereditati e trasmessi. Dalle tradizioni alimentari sarebbe derivato quel patrimonio, che era dovere patriottico mantenere integro al fine di rendere sempre più perfetta l’indipendenza nazionale. Pertanto bisognava evitare l’introduzione di prodotti che non crescessero sul fertilissimo suolo italico [Baglioni, 1936]. Poco dopo l’uscita del manifesto sulla razza, uno dei suoi firmatari, il fisiologo Lino Businco, giurava sulla persistenza dell’inconfondibile tipo antropologico italiano negli ultimi seimila anni, tenacemente protetto dalle Alpi e dai mari in un «meraviglioso» ambiente. Viveva ancora quell’antichissimo «ceppo prezioso», benché non si potesse più affidare la sua tutela solo alla geografia. Conservare una purissima unità di sangue e di spirito avrebbe consentito all’Italia di recare ancora altissimi contributi di pensiero, opere e arti [Businco, 1938]. Era la missione ‘biologica’ cui si sarebbe votato fino al 1943 – occorre forse ricordarlo – un nuovo periodico, La Difesa della razza, che nacque nell’agosto 1938 dall’agire convergente di giornalisti come Teresio Interlandi e di alcuni responsabili del manifesto pubblicato il 14 luglio sul Giornale d’Italia [Cassata, 2008].

Fu debole, in quei primi anni di Sapere, l’interesse per la paleoantropologia. Fabio Frassetto, che teneva cattedra a Bologna dai primi del secolo, scrisse sul rinvenimento di resti fossili a Giava attribuiti da Gustav von Koenigswald a una sottospecie di Homo erectus vissuta durante il Pleistocene ma distinta dal più celebre Pithecanthropus erectus, portato alla luce poco lontano da Eugène Dubois nel 1891. Il nuovo reperto mostrava una morfologia insieme scimmiesca e umana, così da far dubitare sulla sua datazione. Sia lo scopritore sia Arthur Keith – autorevole anatomista e paleontologo britannico – vi avevano visto una delle forme umane più arcaiche, un milione di anni circa. Frassetto commentò che non era più necessario postulare, come aveva fatto l’evoluzionismo classico, una gradualità di forme intermedie, inoltre citando come alternativa l’ipotesi dell’ologenesi dovuta a Daniele Rosa e la sua applicazione all’antropologia fatta da Georges Montandon [Frassetto, 1938]. Il ventiseienne Guido Landra, che aveva svolto un ruolo essenziale nella stesura del manifesto sulla razza, offriva una sintesi della storia dell’evoluzione umana e dei suoi rapporti filogenetici con le scimmie, sulla scorta delle ipotesi formulate da Keith. Del quale mutuava la convinzione che gli aborigeni australiani impersonassero il tipo più vicino a quello primitivo, mentre le componenti più specializzate se ne sarebbero più o meno allontanate. Non solo: la suddivisione nelle razze attuali risalirebbe già al principio del Pleistocene. Erano trascorsi decenni da quando Keith ne aveva trattato sulla base di dati esclusivamente morfologici, che più recenti ricerche sulla distribuzione dei gruppi sanguigni nei primati confermavano [Landra, 1939]. Infine il giovane archeologo e antropologo Paolo Graziosi, che stava per iniziare la carriera universitaria, dedicò tre articoli a trasmettere la meraviglia suscitata dall’arte rupestre in siti diversi, convinto che un fine non già ornamentale, bensì utilitario e magico, avesse spinto l’uomo paleolitico a tappezzare di figure le pareti di numerose caverne, ossia quello di riprodurre gli animali la cui cattura formava lo scopo della sua esistenza [Graziosi, 1937a; 1937b; 1938].

Tempo di guerra e dopoguerra

All’entrata in guerra dell’Italia e alla firma del patto tripartito nel settembre 1940, Sapere reagì con un fascicolo speciale dedicato al Giappone, dove si celebrava l’amicizia dell’Italia con quel lontano paese – suggellata da un trattato già nel 1866 – esaltandone soprattutto le virtù guerriere e la prodigiosa crescita tecnico-economica. Ventiquattro articoli di vari autori coprivano svariati aspetti della storia e della vita giapponese (n. 143 del dicembre 1940, p. 319-374).

La Gente di fuori che, ad apertura del 1940, la rivista prese in considerazione furono i Jivaros dell’Alta Amazzonia, dieci o dodicimila individui con tratti mongolici la cui fama veniva dalla consuetudine religioso-esoterica di rimpicciolire e mummificare le teste dei nemici. Del loro grado infimo di civiltà scrisse Ernesto Bertarelli, un igienista e batteriologo che fino al 1956 avrebbe pubblicato ben 126 articoli di argomento vario su Sapere, nella cui conduzione affiancò il giornalista e direttore esecutivo Raffaele Contu. Di quel gruppo umano l’eclettico collaboratore riferì dati desunti da osservatori sul campo: niente capanne, impudica nudità, un’arte fittile rudimentale e scarse capacità mentali. Il bacino amazzonico veniva lentamente svelando i suoi segreti, nondimeno quella sterminata foresta sarebbe rimasta quasi impenetrabile alla civiltà bianca, «ultimo rifugio della nostra fantasia alla ricerca del misterioso» [Bertarelli, 1940, p. 15]. Il ‘romanzesco’ è elemento comune ad altri, successivi contributi di Bertarelli, per esempio quando illustrò le teste colossali in pietra prodotte nella giungla messicana da una civiltà olmeca distinta da quella maya, o rievocò gli eventi dell’ineguagliabile conquista del Messico per merito di un «pugno di coraggiosi» guidati dall’ardito e astuto Hernán Cortés. Senza tacere, peraltro, i «tristi doni» degli europei, vaiolo e morbillo, documentati anche dai disegni che corredavano il Codice fiorentino di Bernardino deSahagún [Bertarelli, 1941a; 1941b]. Una forma di primitivismo traspare dall’elogio delle virtù assegnate agli indigeni dell’arcipelago panamense di San Blas, che secondo Bertarelli avevano difeso strenuamente sia la propria purezza razziale evitando gli incroci, sia la serena semplicità di una vita secondo natura. Eppure gli era noto come i selvaggi moderni andassero presi con beneficio di inventario, spesso gente ammaestrata che recitava un ruolo a uso di bianchi curiosi e creduli [Bertarelli, 1941c]. Alle prese con gli Arunta, una tribù dell’Australia centrale, di nuovo indicò nel loro vivere da età della pietra un motivo di ingenua felicità: dialetti poveri di vocaboli, religione totemica, assenza di leggi e governo, nessuna smania di possesso. Fatale che le loro file si stessero diradando: un migliaio di individui destinati a sicura estinzione. Su un piano superiore gli sembravano da collocare i Pigmei distribuiti in varie regioni dell’Africa equatoriale, «omuncoli» su cui già esistevano numerosi studi e testimonianze. Correggeva errori e definiva meglio la loro identità antropologica un’opera d’insieme dell’etnologo austriaco (e missionario cattolico) Martin Gusinde, da poco uscita. Una vita sociale semplice, embrionali concezioni religiose, modestia di nozioni naturali e tecniche, amore per suoni e danza. Il naso corto ed espanso alla base dava loro un sembiante scimmiesco. Vedendo sopravvivere quei silvicoli remoti da ogni stato civile, veniva da domandarsi se fossero davvero più infelici degli umani evoluti che non si preoccupavano dei loro simili e anzi spesso li impoverivano e uccidevano per convenienza. Così argomentava Bertarelli in piena guerra, a proposito della protezione dei gorilla decretata in Congo dal governo belga: sarebbe valsa la pena formare piuttosto un grande parco mondiale in cui la vita della specie umana fosse sacra e tutelata [Bertarelli, 1943a; 1943b].

L’interesse per l’Africa si rinnovò con un’intervista di Businco a Zavattari, rientrato da una missione in una zona dell’A.O.I. scarsamente antropizzata, dai costumi primitivi avviati a svanire presto. Un ricchissimo materiale, anche fotografico, era stato raccolto e portato a Roma, per lo più di genere zoologico, ma senza tralasciare il versante etnologico [Businco, 1938]. Della medicina somala dava qualche informazione l’ortopedico Giuseppe Annovazzi, rilevando la fiducia riposta dai locali meno su farmaci che su preghiere e scongiuri, amministrati da santoni recitando versetti del Corano. Alieni da ogni pratica stregonica, la loro era una posizione sociale elevata, da non confondere con quella dei ciarlatani intorno alle cui pratiche la superstizione popolare aveva creato un alone di mistero, e ai quali ci si rivolgeva per gettare il malocchio o per liberarsene [Annovazzi, 1940]. Altrove, nel Dahomey colonia francese, «stirpi negre» singolarmente dotate di qualità artistiche conservavano segretamente culti e credenze del paganesimo tradizionale, per reazione al dominio europeo. Il feticismo vi era amministrato da una casta sacerdotale e terrorista che sfruttava gli sprovveduti indigeni scatenati in cerimonie e danze selvagge per scacciare dal villaggio gli spiriti maligni [Prampolini, 1940]. L’ebbrezza sacra delle Menadi – da molto tempo scomparsa in Occidente – si registrava in Africa ma anche a Bali, dove i danzatori si muovevano «ferinamente», lottando fra loro e cadendo in trance. Riportava il giornalista Raffaello Biordi che, compiuto il sacrificio alla dea Kali, il sacerdote li risvegliava curando le ferite che si erano inflitti [Biordi, 1941]. E ancora, lo storico della musica Giovanni Bignami formulava congetture su come l’uomo paleolitico e poi neolitico ricavasse suoni da strumenti primordiali, anzitutto a percussione; supponeva inoltre che le esistenti tribù selvagge potessero fornire dati utili su quelle remote origini [Bignami, 1944].

Nei medesimi anni Alberto Carlo Blanc comunicò alcune recenti scoperte di fossili umani al Monte Circeo e altrove in Italia – in cui era stato parte attiva – che gettavano luce su tipi succedutisi nel corso di centinaia di millenni, sulla loro tecnologia e arte. Fra l’altro, due nuove «veneri» preistoriche erano comparse al Trasimeno e a Chiozza di Scandiano, esemplari di quella forma primordiale di culto della Madre ampiamente diffusa [Blanc, 1940; 1941; 1943]. Circa la genealogia della specie e delle razze umane, il naturalista Giuseppe Scortecci elencò le principali teorie fra loro concorrenti per desumerne che forse nessuna avesse davvero ragione e che non si potesse prevedere se in futuro prove certe sarebbero state acquisite. Qualche anno era passato dal manifesto sulla razza, in alcuni ambienti rimaneva una certa perplessità sul biologismo e sull’imitazione di modelli stranieri che l’avevano ispirato [Scortecci, 1941]. In proposito, Carlo Rossi di Lauriano raccomandò la lettura di un nuovo libro di Julius Evola appena uscito da Hoepli. Il vero luogo della razza non stava tanto nel corpo, quanto nell’anima, mentre la sua purezza era l’ideale da raggiungere tramite un processo attivo di discriminazione ed elevazione. Gli incroci avrebbero non solo alterato il tipo fisico, ma anche guastato irreparabilmente l’anima. Mediante alcune fotografie di volti, l’articolo presentava le razze dello spirito classificate da Evola e individuava come modello il tipo «ario-romano», che sarebbe stato anteriore a quello germanico: suoi valori un severo stile di vita, il senso della gerarchia e della virilità, la vocazione guerriera [Rossi di Lauriano, 1941(Fig. 4).Quest’ultima, insieme con l’abitudine al «viver parco», il pittore ligure Attilio Podestà conferiva ai Liguri preistorici, una presunta «razza» superiore dalla personalità forte e inconfondibile [Podestà, 1942]. Il sanscritista Angelo Maria Pizzagalli – che pure non aveva mai preso la tessera fascista – esaminò sommariamente come nell’antichità si fosse posto il problema della razza, e quali soluzioni avesse trovato grazie ad autori come Posidonio di Apamea, Erodoto e Livio [Pizzagalli, 1942]. Per inciso va rammentato che l’Unione tipografico-editrice torinese stampò nel 1941 i tre volumi di un’opera dal titolo Le razze e i popoli della terra, che il geografo Renato Biasutti – loro curatore e principale autore – riferì alla particolare temperie in cui la «politica razziale fascista» aveva amplificato «nozioni e questioni che sembravan destinate a non uscire mai dalla ristretta cerchia degli studiosi specialisti.» [Biasutti, 1941, p. xii]. Tuttavia né Biasutti collaborò a Sapere, né mai vi si trova un accenno a quell’impresa che avrà edizioni successive, aumentate e modificate solo in parte, fino al 1967.

Fig. 4 - «È interessante notare l’analogia razziale di questi due tipi, l’uno di razza nordico-aria mediterranea, l’altro invece proveniente da un’antica famiglia persiana: echi della comune unità di origine delle genti arie.» Rossi di Lauriano 1941, n. 150, p. 175.

ignorare le novità archeologiche sulla città mesopotamica di Ur, risalenti alla seconda metà degli anni ‘30, dal significato capitale per la storia della civiltà [Bertarelli, 1944]. E nuovamente, nel 1947, si dorrà che la guerra avesse avuto l’archeologia fra le sue innumerevoli vittime, con un principio di riapertura degli scavi cui raramente i nativi arabi collaboravano, ritenuti inclini piuttosto a razzie e disordini [Bertarelli, 1947]. Soltanto quattro fascicoli di Sapere uscirono nel 1944, due nel 1945, e fu sempre lui a stilare un bilancio dei primi dieci anni del periodico, che avrebbe ormai raggiunto un tale consenso di pubblico da diventare «un legame spirituale, una sintonia di pensiero, una solidarietà affettuosa di lettori fedeli». Scontata l’enfasi, c’era anche da aggiungere che «varie vicende e difficoltà di ogni sorta, connesse ai fortunosi eventi ed alle sventure di cui tutti portiamo il peso hanno fatto tacere la nostra voce per tutto questo anno: ma non perciò abbiamo mai interrotto il lavoro di meditazione, di preparazione, di studio attento e coscienzioso dei problemi e delle esigenze della cultura, immerse nel tumulto affannoso della vita.» Come dieci anni addietro, il fine del periodico rimaneva quello di porgere un aiuto, «in atto umile e fraterno», a chi ne avesse bisogno; di cogliere le leggi che governano il cammino del progresso, per affermare la cui inesorabilità si ricorreva a due citazioni mazziniane. I toni suonano stucchevolmente retorici, adoperati da un ultrasettantenne più legato alla sua formazione ottocentesca che capace di adeguarsi ai tempi nuovi, sebbene indefesso collaboratore fino al suo ultimo anno di vita, il 1956 [Bertarelli, 1945].

La ripresa fu lenta, sei fascicoli nel 1946, un quindicinale forzatamente e temporaneamente trasformato in bimestrale. Vi comparvero fotografie scattate oltre dieci anni prima nel Turkestan cinese dalla viaggiatrice ginevrina Ella Maillart: un ampio materiale etnografico che durante l’occupazione nazi-fascista aveva trovato riparo in un convento umbro, riemerso dopo la Liberazione [Prampolini, 1946]. E fu data notizia della spedizione compiuta da due militari inglesi per aprire una nuova via di comunicazione fra India e Cina attraverso il Tibet. Vi abitava una popolazione mongolica, la cui attività culturale si svolgeva nei monasteri, capo supremo il Dalai Lama. Gli occidentali vi avevano osservato la singolare compresenza di poliandria, poligamia e monogamia e rituali funebri differenziati a seconda del ceto [Prospector, 1946]. In quel primo dopoguerra destava curiosità la presenza di studenti di colore nelle scuole britanniche: sudanesi «prestanti», snelli indiani, indigeni vari il taglio del cui abito occidentale non riusciva a nascondere la naturale agilità di movimenti. Erano circa duemila, tutti provenienti dai territori del vasto dominio coloniale; dopo la parentesi bellica, se intelligenti e capaci, avevano ripreso a trascorrere soggiorni di studio in madrepatria, per diventare i futuri dirigenti dei paesi di appartenenza. Una prova di «vera democrazia» attuata del governo di Sua Maestà, era il giudizio di Salvatore Caldara – esperto di aeronautica – cui tuttavia dispiaceva che quei giovani tendessero a starsene per conto loro, impegnati in discussioni politiche giudicate «sterili», inerenti forse al futuro post-coloniale dei loro paesi [Caldara, 1947].

Si invitava a visitare l’arte precolombiana esposta al Musée de l’Homme di Parigi: quei 300 oggetti dimostravano – secondo lo pseudonimo autore – come il furore dei conquistatori avesse distrutto i segni del più nobile passato, mentre la visione delle opere umane nei diversi periodi storici aveva un significato non solo estetico ma anche morale. Si era portati a reputare i popoli amerindi quali selvaggi del presente, fermi a un grado di sviluppo molto inferiore, fanciulli a volte semplici a volte malvagi [Revisor, 1947]. Quale meraviglia invece – così il tossicologo ed etnologo Ettore Biocca – nell’accorgersi che si trattava di civiltà differenti e perfettamente adattate al loro ambiente. Ne erano consapevoli gli Indios, che non riconoscevano la superiorità occidentale, guardando agli stranieri sempre con diffidenza, se non con disprezzo. La preparazione del curaro richiedeva loro un complesso processo chimico ed era un esempio di grande destrezza. Laddove quei «primitivi» ritenevano che il potente veleno avesse un’origine soprannaturale, la sua adozione come rimedio dalla moderna medicina ne aveva scacciato il demonio. Biocca aveva viaggiato in Alta Amazzonia, avvicinando e frequentando varie tribù locali, in particolare i Tukano, fra Colombia e Brasile, di cui descriveva la struttura sociale, le pratiche matrimoniali e funebri. Gremita di spiriti malvagi, la foresta amazzonica era affidata al controllo dei «pagé», sacerdoti e medici stregoni, altresì dediti a far rispettare le leggi del villaggio. Doloroso era constatare – concludeva Biocca allusivamente – come tra i civilizzati, che avevano da tempo sostituito al vincolo della tribù quello più nobile della fratellanza, «alcuni filosofi e agitatori» fossero riusciti a rianimare molte menzogne tipiche dei selvaggi [Biocca 1947a; 1947b]. Meritava interesse l’imponente documentazione prodotta nell’ultimo quarto di secolo sulla medicina primitiva africana che – secondo Bertarelli – aveva tratto scarso profitto dall’esperienza dei rimedi offerti dalla natura, a differenza di quanto era accaduto in India e in Cina. Gli stregoni conoscevano le piante velenose ma non sapevano impiegarle a fini terapeutici; tutto il loro agire si fondava su un misticismo esoterico estraneo all’esperienza pratica talché alla rudimentale chirurgia africana non corrispondeva alcuna nozione anatomica. Entrati in contatto con la medicina bianca, i nativi tendevano a riporvi più fiducia che nella propria stregoneria, scegliendo quindi di dar credito alla «civiltà», una volta superati iniziali sospetti e timori. Bertarelli non aveva riserve circa i benefici del progresso nel ridurre le infermità e allungare la vita. Dagli scheletri ritrovati si poteva desumere come l’uomo primitivo fosse stato soggetto a una grande quantità di malattie e lesioni che non aveva saputo come curare [Bertarelli, 1948; 1949].

L’orientalista ed esploratore Giuseppe Tucci – fondatore nel 1933, con Giovanni Gentile, dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO) – aveva collaborato a Sapere fin dalla prima annata, proponendo vari aspetti di quel «Tibet ignoto», oggetto costante delle proprie ricerche. Nel dicembre 1948 Biordi accennò all’VIII spedizione partita a marzo verso l’Asia centrale, sotto l’egida della Società geografica italiana e quasi conclusa. La guidava per l’ultima volta Tucci, accompagnato dal fotografo Pietro Mele, da Fosco Maraini e dal colonnello medico Regolo Moise. Toccata la frontiera dell’India, solo a lui, «amico» del Tibet, fu consentito di arrivare a Lhasa, ricevuto con tutti gli onori dal Dalai Lama allora tredicenne. Ottenne tuttavia il permesso di essere raggiunto dai suoi compagni e di proseguire il viaggio, scovando tesori di letteratura e arte nei grandi monasteri [Biordi, 1948]. L’anno successivo Tucci stesso raccontava di quando era entrato in Nepal per la prima volta, sembrandogli di trovarsi in un altro mondo, la sua popolazione un miscuglio di razze del gruppo tibetano-birmano. Una dinastia antica reggeva quei buoni soldati, fornitori di truppe scelte all’Inghilterra, ma anche coltivatori infaticabili. La loro era una fantasia senza limiti nell’esprimere il terrifico e l’orgiastico, temperata soltanto dalle oasi serene del culto buddhista. Presto sarebbe stata completata una camionale che avrebbe collegato l’India con un solo giorno di viaggio, e si stava inoltre progettando un aeroporto. Ne sarebbero seguiti turbamenti e lotte politiche, «come un’epidemia». Anche in Nepal – Tucci prevedeva a malincuore – la serenità contemplativa era destinata a spegnersi [Tucci, 1949].

Oltre la metà secolo

Sapere aveva già accennato a una spedizione norvegese partita dal Perù nell’aprile 1947 per approdare all’atollo di Raroia in Polinesia. Tre anni dopo, la narrazione di quell’epopea marinara fu tradotta in italiano, «poema di nuovi argonauti» desiderosi di sfidare le forze della natura. A guidare i sei navigatori era stato il norvegese Thor Heyerdahl, sedotto dai segreti dell’isola di Pasqua e dalle leggende polinesiane, convinto che in tempi remoti una migrazione dalla costa cilena o peruviana si fosse stanziata su isole lontane quattromila miglia. Un indizio stava nella somiglianza della divinità Kon-Tiki con un’altra divinità precolombiana del Sud America. Ecco allora che, a comprovare la tesi, si era ripetuta la traversata oceanica con una zattera di legno a vela simile a quelle antiche, chiamata come il dio della pioggia: un progetto ritenuto folle da molti, ma audacemente realizzato [Nauticus, 1950; Heyerdahl, 1950]. Indubbiamente i viaggi furono un leitmotiv del periodico allora e in seguito.

Lo svizzero Arnold Heim aveva fornito una «superba visione» del Perù – raccomandata da un recensore – dove vivevano resti di popolazioni incaiche, in alcuni casi non ancora sfiorati dalla civiltà, che adoperavano la cerbottana per cacciare uccelli e piccoli mammiferi. In ogni angolo di quelle valli si percepiva qualcosa di così ignoto da suscitare paura [Heim, 1948; Revisor, 1950]. Vi scalò alcune cime, nonostante l’età già avanzata, l’alpinista Piero Ghiglione che rilevava dati geografico-climatici, colpito dal contrasto fra il «vivere moderno» di Lima e un’esistenza ridotta al minimo adattamento sulla Sierra. Non dimenticava di annoverare la grande varietà di “razze” conviventi, i Quechua e gli Aimarà di discendenza incaica, ma inoltre meticci, mulatti, negri, zambos (incroci fra negri e indios), cinesi e malesi. Nel 1953 farà seguito la cronaca di un’altra sua escursione scientifica sulle Ande peruviane, che lo aveva condotto a visitare la Hacienda Lauramarca, proprietà di un genovese a 4050 metri di altitudine, nei cui dintorni abitavano cinquemila indigeni di lingua quechua dediti per lo più alla pastorizia, venerando come divinità i nevados, montagne imponenti. Loro cibo quasi esclusivo le patate, strappate a una terra avara; di indigenza estrema fu l’impressione provata da Ghiglione: restava un mistero come quella gente potesse campare [Ghiglione, 1951; 1953].

Misteriosa apparve anche l’intera Amazzonia a Bertarelli che le dedicò tre articoli, il primo prevalentemente geografico, il secondo riguardante tribù indie ferme a uno stato selvaggio, umani «ancora ignudi» e poco sensibili «agli allettamenti dell’uomo bianco», inferiori ai cavernicoli dell’età della pietra. Come da trent’anni stava facendo il militare mulatto Cândido Rondon – che Bertarelli aveva incontrato molto tempo prima a San Paolo – occorreva avvicinarli «con la bontà» per poi legarli alla vita civile. Una finalità sociale ed etica di importanza mondiale che l’Unesco aveva fatto propria, mirando anzitutto a una migliore conoscenza di quell’umanità. Il terzo articolo mostrava come si stesse studiando la terapeutica dei «popoli ancora immersi nella barbarie» per trarne qualche razionale applicazione. Il principale esempio consisteva nelle ricerche sul curaro, alcaloide di specie vegetali appartenenti al genere Strychnos, usato dagli amerindi delle selve amazzoniche per preparare frecce avvelenate. Trasferito nella clinica occidentale, si era rivelato benefico nella cura del tetano e di spasmi da shock, oppure come anestetico. Il penultimo contributo di quella serie seguì all’impresa di alcuni «ardimentosi» che fra il 1949 e il 1951 raccolsero dal Venezuela al Brasile la documentazione fotografica per un film, da cui Alain Gheerbrant aveva appena ricavato un album dal titolo Des hommes qu’on appelle sauvages. Tredicimila chilometri attraverso foreste mai visitate dall’uomo bianco, incontrando tribù a differenti stadi di sviluppo, talvolta ribelli al contatto, di cui filmare l’esistenza. Infine, Bertarelli recensì le memorie del colonnello Percy Harrison Fawcett – curate dal figlio Brian – che nella giungla brasiliana era scomparso un quarto di secolo prima. Portato per istinto al «meraviglioso», l’esploratore britannico era alla ricerca della leggendaria Z, una città perduta e da lui identificata con El Dorado [Bertarelli, 1950; 1950b; 1952b; 1952c; 1954].

E fu sempre l’infaticabile Bertarelli a recensire il libro del missionario francese Roger Buliard che aveva trascorso quindici anni fra gli eschimesi del Canada settentrionale, «derelitti gruppi umani in lotta ogni giorno con la morte», per i quali l’omicidio sembrava non avere nulla di vergognoso, essendo il senso della legge poco consono alla loro mentalità primitiva. Più difficile convertire loro che un «negro»: prevedibilmente scarso il successo delle missioni cattoliche e protestanti, più probabile che si sarebbero estinti prima che il soffio della civiltà permeasse il loro animo. Poco dopo, però, Bertarelli si ricredette in parte su quei «fratelli minori» dell’Artico, dopo aver letto l’esposizione del danese Aage Gilberg, appassionato di Groenlandia e medico del distretto di Thule, destinata a diventare un bestseller. I suoi Inuit erano ritenuti suscettibili di civilizzazione, esibendo quadri di moralità talvolta superiori a quelli dell’uomo bianco, immuni da neurastenia pur dovendo sopravvivere ai lunghi mesi della notte polare. Eloquente il commento di Bertarelli: un giorno anche gliEschimesi del Canada avrebbero forse accolto i benefici dei «nostri ideali», trovandovi una ragione di esistenza. Gli parve allora un esempio di «fede al servizio della più nobile delle cause» che in un ventennio fossero stati convertiti 25.000 indigeni della Papuasia, fino allora immersi «in un male definito crudele paganesimo» [Bertarelli, 1951a, 1951b]. Fra quelle tribù, alcune delle quali praticavano ancora l’antropofagia, il missionario francese André Dupeyrat aveva trascorso ventuno anni, in lotta contro gli stregoni locali che ne avevano ostacolato l’opera con ogni mezzo. Il libro che ne raccolse le gesta esponeva anche la scena di un festino cannibalico, che destò scandalo in Bertarelli. Il quale, peraltro, sarebbe caduto nel cliché della «mistica oasi» polinesiana raccomandando la lettura dei due volumi con cui lo scrittore belga naturalizzato francese Albert t’Serstevens rese conto di un suo soggiorno a Tahiti. In linea con una lunga tradizione, i nativi gli erano sembrati belle creature, semplici e serene; le donne accoglienti nella loro «facile corruzione», una nudità perfetta sotto il pareo che poco cela; unioni libere e quelle regolari considerate sullo stesso piano; ripugnanza per la scarsa igiene dell’uomo bianco e negligenza verso la conquista di ricchezze. Insomma una «razza» che non si preoccupava del domani, ma così si «anemizzava» e andava lentamente consumandosi: la «felicità statica» non poteva reggere l’urto con il progresso [Bertarelli, 1953c; 1952a]. Con le sue ambiguità, il senso comune eurocentrico dettava suggestioni e giudizi.

In quel periodo, dei Tebu – pastori nomadi del Sahara – scrisse l’esploratore geologo Ardito Desio, un veterano di spedizioni iniziate già ai primi degli anni Venti. Nel 1940 ne aveva guidato una nel Tibesti, dove viveva una delle popolazioni meno note [Desio, 1951]. Di altri nomadi dediti alla pastorizia nel Sudan anglo-egiziano, lungo il corso del Medio a Alto Nilo, trattò Revisor, riconoscendo all’infiltrazione della civiltà bianca il merito di avere insegnato loro a coltivare prodotti come il cotone. Così si era anche imparato a distinguere le tribù Krongo, robusto e armonioso ceppo somatico ben lontano dai «tipi scimmieschi» che s’incontravano attorno al Golfo di Guinea. Una particolarità delle loro capanne consisteva nel foro ellittico della parete: entrarvi e uscirne richiedeva agli snelli ed elastici abitanti un esercizio ginnico. (Fig. 5-6)L’anno successivo lo stesso autore – evidentemente attempato – ricordò che cosa i Pellirosse avessero significato per i «giovinetti del 1880-1890», cui le guerriglie fra tribù indiane e forze militari governative erano sembrate manifestazioni di una grande lotta fra barbarie e civiltà. Ai loro occhi lo scalpo era l’emblema di una ferocia primitiva da cancellare, e la vittoria di Buffalo Bill sul capo indiano Yellow Hand (o Hair) qua erroneamente datata 1886 – in realtà 1876 – un evento da festeggiare, «come se si iniziasse in America una nuova era». In realtà, a distanza di tempo Revisor riconobbe che là aveva avuto inizio un’agonia culminata nel massacro di Wounded Knee il 29 dicembre 1890. Aggiunse anche che la civiltà bianca era caduta spesso nell’incongruenza di prima distruggere per poi raccogliere i pochi avanzi tentando una goffa riabilitazione: così era successo con gli Aztechi e gli Incas. In New Mexico si andava alla ricerca dei Pueblos per valorizzarne la storia e l’arte. Nelle riserve in cui erano confinati i nativi echeggiava tuttavia una voce di speranza e di resurrezione: «benevola illusione romantica» secondo l’autore, che presagiva il futuro assorbimento di quei residui nella nazione e la definitiva segregazione della cultura dei Pellirosse nella letteratura e nel folklore [Revisor, 1952; 1953]. Non mancò, d’altro canto, la celebrazione di Pietro Savorgnan di Brazzà, di nobile famiglia friulana, nel centenario della nascita, e di quella «leggendaria dolcezza» che lo aveva portato a stabilire buone relazioni con gli abitanti di territori dell’Africa centrale poi colonia francese, lui stesso nominato governatore del Congo. Destituito nel 1898 per la sua opposizione alla politica di angherie e sfruttamento praticata laggiù, aveva trascorso gli ultimi anni di vita in esilio volontario ad Algeri, denunciando la riduzione in schiavitù di indigeni addetti alla lavorazione del caucciù. Era morto, in circostanze ambigue, poco dopo aver compiuto un’inchiesta di cui l’aveva incaricato lo stesso governo francese, nondimeno mai giunta a destinazione [Savorgnan di Brazzà, 1952].

È significativo che non avessero alcuna eco, in Sapere, la trentina di libri pubblicati fra il 1948 e il 1956 nell'innovativa Collana viola di Einaudi, lanciata da Cesare Pavese e curata da Ernesto De Martino. Né vi trovò voce l’innovativo approccio demartiniano, multidisciplinare e antinaturalistico, al magismo delle culture meridionali. Bertarelli rivendicò nel 1953 che Sapere avesse offerto fino allora notizie fondamentali sull’arte preistorica, un tema senz’altro avvincente per i lettori. In realtà lo si affrontò prevalentemente in quegli anni. A suo avviso, l’accumularsi di un materiale ingente e in continuo accrescimento era il prodotto di un nobile interesse che spingeva alla ricerca dei modi in cui lo spirito dell’uomo «cavernicolo» avesse reagito alla visione del creato e alla natura dei viventi che gli stavano intorno. Alcunché di commovente aveva la capacità di fissare in graffiti o disegni rupestri le ingenue impressioni del primitivo, quei «primi vagiti» dell’arte: una grandiosa «miniera di reperti […] che si erge a gloria della mirabile natura umana» [Bertarelli, 1953a, p. 109]. Fu un esperto di cani e di automobili, singolarmente, a informare sulle migliaia di incisioni rupestri nelle vallate delle Alpi marittime che circondano il Monte Bego: superbo archivio della preistoria ligure formatosi nel corso di alcuni millenni in una località difficilmente accessibile, probabilmente meta di riunioni religiose. Quali fossero le divinità venerate, restava però oscuro [Tron, 1955].

Al congresso di Preistoria mediterranea tenutosi a Firenze nel 1950 il già menzionato Graziosi – l’ultimo suo articolo su Sapere era uscito dieci anni prima – aveva fornito notizie sull’esplorazione di una grotta nell’isola di Levanzo dove si sarebbero svolti, durante il Paleolitico superiore, riti propiziatori della caccia. Ne erano testimonianza incisioni rupestri simili a quelle franco-cantabriche nel raffigurare animali in modo naturalistico. La medesima grotta rivelò anche un altro ciclo di manifestazioni artistiche: pitture in nero, posteriori alle prime, che mostravano una «regressione» dal naturalismo alla stilizzazione e sembravano preludere ai simboli della scrittura pittografica. Qualcosa di simile si era rinvenuto in zone geografiche lontanissime fra loro, talché si poteva pensare a un «momento universale dell’anima e dell’arte primitiva». Erano state segnalate una trentina di incisioni nella grotta dell’Addaura, a Palermo, con scene di caccia, effigie zoo- e antropomorfe, che Alberto Carlo Blanc stava studiando. Dunque il primato nell’arte rupestre – si rallegrava il divulgatore – non competeva solo a Francia e Spagna [Modica, 1953]. In seguito, un articolo redazionale riconobbe alle ricerche dell’ultimo mezzo secolo il merito di aver ridestato un fantastico passato sepolto e rinviò alla sintesi di quel vasto patrimonio che Graziosi aveva redatto nel 1956 [Graziosi, 1956]. Anno in cui aveva suscitato scalpore e il ritrovamento di un eccezionale numero di animali graffiti o disegnati sulle pareti della grotta di Rouffignac (Périgord). Sia l’abate Henri Breuil, massima autorità in materia, sia Graziosi stesso avevano infine certificato la loro autenticità [Redazionale, 1958]. Prendendo le mosse dalle oltre diecimila figure zoomorfe e antropomorfe sparse su lastroni di arenaria in Val Camonica, l’etnomusicologo Bignami si concentrò sulle scene di danza, dove il «primitivo» sembrava mutare anima e corpo in un’intima finzione mimica, tutti i sensi tesi al rito propiziatorio, che accompagnava ogni passaggio della sua vita. Conoscevano strumenti musicali quei preistorici? Probabilmente sì, e sembrava trovarsene traccia anche in alcuni graffiti del bresciano. L’anno successivo Bignami confermò che, oltre agli indizi desumibili da scene parietali, erano stati rinvenuti zufoli di terracotta risalenti al Neolitico. Strumenti a percussione dovevano essere apparsi molto prima di quelli a intonazione: ancora in uso, peraltro, fra i selvaggi contemporanei, in virtù del forte potere esercitato dal ritmo sullo «stato larvale» del primitivo e della sua grande fantasia nell’inventare modi per crearlo [Bignami, 1956; 1957; 1958].

Un «vero romanzo di mille ricerche» fu recensito nel 1954, opera divulgativa del francese André Senet che mostrava come fossero esistiti nel tempo vari tipi di ominidi, la maggior parte estinti, rami sterili di origine ancora oscura: Australopitechi, Pitecantropi e Sinantropi, Neanderthal. In proposito il recensore menzionava le ricerche di Louis Leakey, taceva sulle genealogie e si limitava a escludere la vecchia ipotesi di un solo tipo umano evoluto fino a Sapiens, nella cui linea ascendente per qualche decennio era stato inserito anche il clamoroso falso dell’uomo di Piltdown, causando controversie, smascherato soltanto l’anno precedente [Tosarello, 1954; Senet, 1954]. In un successivo articolo Mario Tosarello confermò la convivenza di molteplici forme umane riferendo dell’esumazione, in Algeria, di resti fossili attribuiti a una specie apparentemente ancora sconosciuta e denominata Athlantropus mauritanicus. Più tardi, tuttavia, vi si sarebbe notata una tale somiglianza con esemplari asiatici di Homo erectus, da persuadere ad annettervela [Tosarello, 1955]. Notoriamente la paleoantropologia era sempre stata impresa in continuo, rapido divenire. Così, nel 1957, Tosarello denunciò l’«ottusa inerzia» del luogo comune secondo cui l’uomo deriverebbe dalla scimmia: innegabili le parentele filogenetiche, che nondimeno si perdevano tanto lontano nel tempo da sfuggire ancora all’indagine, costrette nel campo delle illazioni. Tutt’al più si arrivava a un milione di anni indietro: «poi il vuoto: niente specie umane o umanoidi note». Non si poteva accettare un’unica origine né per le scimmie né per l’uomo, sembrava più probabile che le varie specie ominidi conosciute – così diverse fra loro – fossero punti di arrivo di più evoluzioni parallele «verso il predominio dell’intelligenza come mezzo di vita» costituito da Sapiens. Poco oltre la metà del secolo, dunque, si evidenziavano soprattutto i limiti delle conoscenze sui primordi dell’umanità ma non si rinunciava a un certo finalismo [Tosarello, 1957]. Una nota anonima del 1957 prese spunto dal congresso di paleoantropologia tenutosi a Düsseldorf l’anno prima, nel centenario della scoperta dello scheletro di Neanderthal, per esprimere qualche dubbio sulla possibilità di situare con relativa esattezza la sua «scissione» rispetto a Sapiens. Quanto all’identità di quell’«Adamo dell’era glaciale», la fantasia aveva dapprima galoppato immaginandolo un selvaggio rifugiatosi in Europa, un celta, un antico olandese, una forma patologica o addirittura un cosacco superstite delle battaglie napoleoniche. Solo più tardi ulteriori apparizioni di fossili analoghi avevano dimostrato come fosse in realtà l’esemplare di una «razza umana» che aveva abitato a lungo un vasto areale. La nota accennava alle fattezze somatiche di H. neanderthalensis, al presunto cannibalismo rituale, alla datazione vaga, fatta risalire addirittura a un milione e più anni: non già un antenato di Sapiens, bensì un ramo collaterale, una sorta di vicolo cieco dell’evoluzione umana. Ed effettivamente molto restava da chiarire in proposito [Anonimo, 1957].

Quanto alla donna preistorica azzardava un’ipotesi il medico milanese Paolo Sforzini, traendo ispirazione da uno studio dell’antropologo sudafricano Philip V. Tobias sui boscimani, «superstiti dell’età della pietra», prossimi a scomparire. Era nota la steatopigia delle loro donne, un carattere somatico simile a quello riscontrato in molte statuette provenienti da varie località europee. Se ne poteva forse concludere che la distribuzione del grasso fosse diversa nel corpo femminile del Paleolitico? Arduo rispondere, trattandosi di testimonianze proto-artistiche che forse avevano inteso accentuare gli attributi della fecondità materna a fini scaramantici e taumaturgici. Forse però la donna pingue di tempi remoti configurava un ideale di bellezza, come per certi popoli attuali, oppure ancora il fenomeno era da spiegare in chiave patologica, legato a una disfunzione endocrina [Sforzini, 1957]. Toccò al medico e storico della medicina Ercole Vittorio Ferrario offrire un quadro generale del cannibalismo, fenomeno variegato a seconda dei tempi e dei luoghi: una ridda di ipotesi formulate, su cui restava ancora molta incertezza fra gli interpreti. Lo si poteva forse classificare secondo tipi: economico e profano, giuridico, magico, rituale. E ancora Ferrario spiegò come i «negri» vedessero nelle malattie l’agire di spiriti, e contassero sulla mediazione di traumaturghi in vista di una guarigione da ottenere tramite rituali di scongiuro. Oppure come magia, astrologia e oniromanzia fossero state alla base della medicina degli antichi Sumeri, che avevano praticato terapie eminentemente apotropaiche [Ferrario, 1958; 1959; 1960].

Iniziò a collaborare nel 1958 il ventiquattrenne Brunetto Chiarelli, assistente volontario alla cattedra di Anatomia umana dell’Università di Firenze. Gli spettò ricordare come cent’anni prima fosse stata annunciata alla Linnean Society la teoria dell’evoluzione per selezione naturale concepita da Charles Darwin e da Alfred Russel Wallace; la sintetizzò anche in quattro proposizioni e tre deduzioni [Chiarelli, 1958b]. E fu lui, inoltre, a rinnovare la meraviglia di fronte alle antichissime opere d’arte, al loro inatteso realismo, nonché il senso di mistero suscitato dalla lunga durata dei tempi preistorici e dalla lentezza del processo di evoluzione. Quali i motivi che potevano avere spinto l’uomo paleolitico a tappezzare di figure le pareti di tante caverne? Probabilmente molto meno un’aspirazione di tipo estetico che uno stimolo di ordine pratico. La pratica della caccia e il bisogno di fecondità sembravano aver dettato dipinti o incisioni in caverne profonde e oscure dove si erano forse eseguiti riti propiziatori e d’iniziazione. Talché ai prodromi dell’arte andavano ascritti scopi magici [Chiarelli, 1958a]. In quegli anni, un’altra giovane recluta di Sapere fu Folco Quilici, che già aveva preso a esplorare con la cinepresa fondali sottomarini, mostrandosi anche capace di descrivere, da antropologo amatoriale, l’ambiente naturale e umano dell’Africa equatoriale. Gli indigeni che incontrò nella foresta erano quasi in tutto gli stessi che avevano conosciuto Livingstone, Stanley e Brazzà: piccoli e curvi, analfabeti, nudi; «una razza fisicamente e psicologicamente schiacciata» dal mondo circostante, ben diversa dagli abitanti della savana, i Bapunù, pure appartenenti al medesimo gruppo etnico. Arrivare fin laggiù implicava un salto nello spazio ma anche nel tempo. Dopo sei giorni di portantina in spalla a tipoyeures neri – persistente consuetudine, nel Congo ancora coloniale – era approdato in un piccolo villaggio di cui tratteggiò lo svolgersi della vita quotidiana e i rapporti sociali. A Mussugù la famiglia del capo aveva diritto di caccia e pesca, vigeva la monocoltura della manioca affidata alle donne, mancava il bestiame, ci si affidava allo stregone quando il missionario era lontano. Non era capitato a Quilici di vedere un nativo sorridente e radioso, ma in fin dei conti quel genere di esistenza scorreva placida e immobile. Inutile testarvi felicità o infelicità «come le intendiamo noi». Il morto sembrava un addormentato dalla magia, lo si seppelliva dritto o seduto in una buca, giudicato responsabile di guai vari da scongiurare. Si supponeva che i gemelli fossero portatori di terribili calamità, per cui alla nascita uno veniva soppresso e, temendolo, se ne venerava poi la tomba [Quilici, 1956a; 1956b]. Un altro viaggio solitario in Tunisia portò Quilici sulle sponde dello Chott-el-Djerid, a incontrare beduini che gli avevano parlato del loro nomadismo in perenne ricerca di acqua, e infine i trogloditi di Matmata, alle porte del Sahara, le cui case erano accessibili da un foro aperto nella roccia, sviluppandosi all’interno della montagna [Quilici, 1958]. Lo sguardo del giovane osservatore ritrae con partecipazione emotiva quelle insolite modalità di vita, e non sorprende che nel 1960 l’ultimo suo articolo per Sapere riguardi la «fine del primitivo», la contaminazione che il progresso economico e tecnico stava provocando in molte forme di vita e tradizioni che si erano conservate per secoli. Sicuramente ne derivava un miglioramento delle condizioni generali, la scomparsa di carestie ed epidemie, ma al tempo stesso quel «germe invincibile» avrebbe annullato le differenze e ridotto l’umanità a uno standard uguale per tutti [Quilici, 1960].

Nella seconda metà degli anni Cinquanta comparvero resoconti di altri viaggi, per esempio quello in Australia del giornalista Mario Fazio, che sullo «sconcertante» continente in rapido progresso – e ricco di contrasti – aveva appena pubblicato un libro. Suscitava indignazione, in particolare, la miserabile sorte dei pochi aborigeni superstiti dopo le lotte di sterminio condotte dai bianchi con gratuita ferocia: in Tasmania un’orrenda caccia all’uomo li aveva già completamente spazzati via [Fazio, 1957a; 1957b]. Ad Africa e Asia fu sempre interessato il viaggiatore, etnologo e giornalista Attilio Gaudio, che fra il 1954 e il 1962 scrisse per la rivista numerosi articoli. Ne furono oggetto, per esempio, l’arduo processo di emancipazione delle donne africane, relegate al ruolo di strumento di generazione, badanti dei figli e addette ai lavori agricoli più pesanti. Efficacemente raffigurò inoltre il «formicaio pauroso» di Calcutta, dove tentavano di sopravvivere sei milioni di «bestie umane», nell’atroce condizione in cui le aveva lasciate il colonialismo, perpetuata dal sistema castale nonostante l’abolizione solo formalmente decretata nel 1947 dalla costituzione della Repubblica. E ancora, Gaudio illustrò con ammirazione il Rajastan, una delle regioni più ‘indiane’ per lo spirito, i costumi, le città favolose: confinando con il Pakistan, aveva resistito con fierezza all’invasione musulmana [Gaudio, 1958b; 1958a; 1959]. Sulle popolazioni del Nepal di cui aveva già trattato Tucci tornò Pietro Ghiglione, insistendo sulla loro primitività e isolamento, alimentazione, dimore e tecnologia rudimentali. E nel 1957 il decano degli alpinisti, settantaquattrenne, scalò in solitaria il picco Cristóbal Colón, 5577 metri quasi a strapiombo sul mar dei Caraibi. Ne approfittò per esporre i tratti somatici e l’idioma dei nativi della Sierra Nevada, che coltivavano miglio, orzo e granturco a duemila metri di altitudine, saliti lassù secoli prima per sfuggire alle persecuzioni dei conquistadores. E non per nulla la missione di frati installata da molto tempo sull’altopiano aveva incontrato molte difficoltà a penetrare l’animo di quei rudi contadini [Ghiglione, 1955; 1957].

Fig. 5. «Come si entra in una capanna Krongo.» Revisor 1952, n. 419, p. 222-23.
Fig. 6 - «Come si esce da una capanna Krongo.» Revisor 1952, n. 419, p. 222-23.

Epilogo

Il 1960 fu definito dal giornalista e storico Ferdinando Vegas l’anno dell’Africa, in seguito alla «svolta» che stava emancipando il continente dal dominio coloniale. I pronipoti dei selvaggi sedevano ormai nei parlamenti e sulle cattedre universitarie, rivendicando i diritti della négritude. Saggezza voleva che il pedagogo sapesse ritirarsi in tempo, una volta espletato il proprio compito civilizzatore, sebbene non tutte le potenze europee l’avessero compreso. Restava inoltre la tragedia dell’apartheid, dovuta alla disperata resistenza dei razzisti sudafricani, ma il corso della storia si sarebbe prima o poi compiuto anche laggiù, malgrado la grande varietà delle condizioni locali [Vegas, 1960]. Nei due anni successivi lo sguardo di Vegas si spostò verso Oriente, a cogliere le problematiche cui si trovavano di fronte, in modo totalmente diverso, Cina, India e Giappone [Vegas, 1961a; 1961c; 1962]. E non mancò neppure una sua inchiesta sugli inquieti, tempestosi Caraibi, la cui crisi non era imputabile alla natura fisica della regione né a un particolare tipo umano che l’abitava, poiché tanto la morfologia geografica e il clima, quanto la demografia apparivano molto differenziati. Semmai ne era responsabile l’assetto economico e politico, conseguenza di uno sfruttamento coloniale durato secoli [Vegas, 1961b].

Una serie di articoli, in quel periodo, produsse il geografo e viaggiatore Eugenio Turri, affrontando svariati argomenti. Fra gli altri il nomadismo, su cui sarebbero circolate idee erronee e generalmente negative. Era opportuno precisare che il termine definiva popoli allevatori di cultura non primitiva, il cui migrare era regolato dalle stagioni, in vaste aree estese dal nord Africa al Sudan, o dall’Asia anteriore alla Mongolia. Povertà di vegetazione e grandi spazi i fattori determinanti, che avevano dettato le regole di un’attitudine millenaria. Un’idea vera solo in parte aveva relegato i nomadi a stadi precedenti il passaggio all’agricoltura, mentre la durezza della loro attuale esistenza configurava un’involuzione rispetto alla sedentarietà. Lo sforzo per estendere le terre coltivate avrebbe significato liberarli da uno stile di vita ormai anacronistico, diffidente verso l’esterno. E nuovamente nel 1963 Turri registrò come il progresso economico-sociale tendesse a imbrigliare gli ultimi nomadi nella struttura stanziale e urbana della modernità [Turri, 1960; 1963]. Si occupò anche del Sudan, relativamente alle centinaia di pozzi aperti dagli «stregoni» italiani nel desertico Darfur, dove piccoli gruppi di famiglie sopravvivevano a stento con un bestiame di spaventosa magrezza, e per i quali la maggiore disponibilità di acqua avrebbe posto fine a tribolazioni millenarie. Una condizione opposta era quella di coloro che abitavano palafitte nella laguna Nokoué, affacciata sul Golfo di Benin, dove terra e acqua sembravano fondersi come in un universo non ancora definitivamente uscito dal caos. Appartenenti al gruppo etnico degli Aizo, di «razza sudanese», erano pescatori che si muovevano su piroghe e i cui stregoni officiavano un culto animista e feticista, formatisi in un convento a Ouidah. L’apparato rituale era però in via di dissoluzione, sia per la vicinanza ai centri più progrediti della costa, sia a seguito della predicazione di missionari cattolici. Il governo del Dahomey si proponeva di orientare i lagunari verso la pesca marittima, trasferendo parte della popolazione sulla costa [Turri, 1961; 1962].

Dopo ventotto anni, Hoepli decise d’interrompere la pubblicazione di Sapere con l’ultimo fascicolo del 1962 e di cederlo a un editore che garantisse fedeltà alla tradizione. Acquisirono la rivista le Edizioni di Comunità, affidandola a un nuovo comitato scientifico composto da nove esponenti di varie discipline «sensibili all’importanza sociale della divulgazione scientifica» [Edizioni di Comunità, 1963]. La diressero inizialmente Ulrico Hoepli jr., Renzo Zorzi e Romolo Saccomani, il quale soprattutto impresse alla nuova serie un orientamento aperto a questioni sociali e politiche – esprimendo un punto di vista molto critico nei confronti dell’arretratezza del paese – nonché a stabilire rapporti con riviste straniere di divulgazione. Inquietava la crisi permanente della ricerca scientifica in Italia e il conseguente gap tecnologico rispetto ad altri paesi europei, temi su cui Saccomani intervenne spesso in quel periodo, dichiarando la volontà di formare i «quadri» del paese, sensibilizzandoli anche sulle vicende dei paesi cosiddetti in via di sviluppo e sulle responsabilità di quelli più progrediti [Saccomani, 1965; 1966a; 1966b].

Vale la pena notare la composizione esclusivamente maschile della nuova struttura editoriale, che mutò già nella primavera 1967, quando la proprietà fu rilevata dalla casa editrice Dedalo, recentemente creata da Raimondo Coga. Per un paio di anni il periodico fu diretto da Adriano Buzzati-Traverso e va evidenziato come solo allora una donna – Margherita Hack – entrò a far parte del comitato scientifico. Del resto nel trentennio trascorso dalla fondazione, Sapere si era servito in modo preponderante di un’autorialità maschile. Nel 1964 fu la storica Chiara Andreis a scrivere sul suicidio nelle società primitive, mostrando come il desiderio di togliersi la vita assuma significati variabili a seconda delle concezioni della morte, che esaminò l’anno successivo, in particolare la «mala morte» soggetta a riti sciamanici di purificazione [Andreis, 1964; 1965]. Alcuni approfonditi articoli si devono a Vittorio Lanternari, etnologo e storico delle religioni, sull’acculturazione dei popoli ex coloniali, sui movimenti di liberazione in Africa e i musulmani neri d’America [Lanternari, 1964a; 1964b; 1965; 1966a; 1966b]. (Fig. 7)Ebbero un certo spazio questioni legate alla complessità e alle contraddizioni della fase post-coloniale. È caratterizzante di quella nuova stagione che vi apparissero – ma estratti da libri Einaudi appena pubblicati o in via di pubblicazione – corposi testi del genetista Theodosius Dobzhansky sulla diade biologia/cultura [Dobzhansky, 1966], dello storico Alphonse Dupront sui fenomeni legati all’acculturazione [Dupront, 1966], del giornalista Charles E. Silberman intorno al «problema negro» negli Stati Uniti [Silberman, 1966], dell’antropologo Ashley Montagu, da tempo solerte demolitore del mito della razza [Montagu, 1966], nonché di Herbert Marcuse, di cui era appena uscito con grande clamore L’uomo a una dimensione [Marcuse, 1967]. Una volta avvenuto il passaggio a Dedalo, non mancò un brano di Claude Lévi-Strauss sulla ricerca di strutture inconsce dei processi culturali e linguistici, presentato redazionalmente come se l’autore fosse ancora poco noto al pubblico italiano [Lévi-Strauss, 1967].

Dopo la breve parentesi della direzione di Buzzati-Traverso, l’editore barese s’incaricò di condurre personalmente Sapere fino al 1974, quando gli subentrò Giulio A. Maccacaro e una sua nuova serie ‘militante’ ebbe inizio.

Fig. 7 - «Il profetismo è un aspetto particolare del risveglio dei popoli del terzo mondo. Analoghi ed equivalenti movimenti social-religiosi punteggiano la lotta di liberazione dei popoli dell’Asia e dei negri d’America.» Lanternari 1964, n. 660, p. 692.