N.2 2023 - Scientia | Dicembre 2023

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«Può darsi benissimo ch’io mi sia ingannato»: il "Novum corpus fontanianum" e la comunicazione della scienza nell’età dell’incertezza

Fabio Forgione

CREA - Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia agraria, forgione.fabio@gmail.com

Abstract

Grazie al recente progetto Novum corpus fontanianum, è stata realizzata una guida digitale dedicata alle fonti manoscritte e a stampa sullo scienziato Felice Fontana (1730-1805), noto per essere stato il fondatore del Museo di fisica e storia naturale di Firenze. L’articolo presenta i risultati del lavoro, le novità che ne sono emerse e i principi che hanno guidato le sue diverse fasi, dal censimento fino alla digitalizzazione degli scritti. In particolare, sono illustrati gli aggiornamenti rispetto agli studi precedenti, alcune vicende archivistiche e i nuclei di documenti più rilevanti. Tuttavia, le caratteristiche del portale web, aperto e liberamente accessibile, spingono a sviluppare ulteriori riflessioni su questa iniziativa, che ha in sé le potenzialità per contribuire a una più matura comprensione del posto della scienza nelle società contemporanee. Negli ultimi decenni, le ricerche su temi simili sono state appannaggio dei Science and Technology Studies e hanno trovato nuovo slancio in occasione della pandemia. Si metterà però in luce come anche la storia della scienza, puntando su strumenti innovativi e aprendosi al confronto con altre discipline, possa giocare un ruolo importante nella prospettiva di una piena cittadinanza scientifica.

English abstract

The recent Novum corpus fontanianum project has led to the creation of a digital guide dedicated to the manuscript and printed sources concerning the scientist Felice Fontana (1730-1805), known as the founder of the Museum of Physics and Natural History in Florence. This article illustrates the results and the new findings of the project, as well as the principles that guided its various phases, from the initial survey to the digitisation of the texts. More specifically, it describes the updates to previous studies, some archival stories, and the most relevant groups of documents. Yet, the characteristics of the web portal, open and freely accessible, prompt fur­ther reflections on this initiative, which has the potential to contribute to a better understanding of the place of science in contemporary societies. In recent dec­ades, research on similar topics has been the domain of Science and Technology Studies and has found a new impetus in the context of the pandemic. However, emphasis will be placed on how the history of science too, by relying on innova­tive tools and opening to dialogue with other disciplines, can play an important role in the perspective of developing a mature scientific citizenship.

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Il progetto Novum corpus fontanianum, dedicato allo scienziato trentino Felice Fontana (1730-1805) e recentemente arrivato a conclusione, ha portato alla realizzazione di una guida alle fonti in forma digitale, ora liberamente fruibile su un sito web dedicato. Sfruttando gli strumenti informatici, è stato possibile censire in maniera estesa e approfondita i documenti manoscritti e a stampa relativi a Fontana, così da crearne un repertorio centralizzato.

Questo saggio sarà organizzato in due sezioni. Nelle prime pagine si darà un resoconto dei risultati del progetto, in rapporto con gli studi sul naturalista condotti negli scorsi anni, ma in seguito si prenderà il Novum corpus fontanianum come spunto per una riflessione più ampia. Il nuovo portale è infatti utile agli storici della scienza, ma è anche aperto a qualunque cittadino interessato e, dunque, richiede che lo si osservi da una prospettiva che non sia meramente accademica. Si proporranno pertanto alcune considerazioni sul significato e il valore di prodotti di questo genere e sulle loro potenzialità per il raggiungimento di una cittadinanza scientifica consapevole.

Negli scorsi decenni, le interazioni tra scienza, cittadini e istituzioni sono state al cuore dei lavori condotti nel vasto campo degli studi sociali sulla scienza, o Science and Technology Studies (STS). Le relazioni tra queste ricerche e la storia della scienza hanno visto alternarsi avvicinamenti e incomprensioni, ma da più parti sono stati evidenziati i vantaggi di un’ottica interdisciplinare, di un reciproco riconoscimento e di sinergie fondate su domande condivise [Jasanoff, 2000; Daston, 2009; Dear - Jasanoff, 2010]. I tentativi di incontro e gli sforzi di studiosi attivi su entrambi i fronti hanno consentito di sfumare le linee di demarcazione, ma la questione resta di attualità, anche alla luce del ruolo pubblico assunto dalla scienza durante la pandemia di Covid-19. Benché il Novum corpus fontanianum possa apparire distante dai problemi del presente, si tenterà di mostrarne un senso profondo e trasversale. Grazie a un esame del posto e dei problemi della scienza nelle società democratiche contemporanee, si arriverà così a tracciare alcune linee di convergenza tra discipline che – pur con presupposti diversi – hanno un oggetto di ricerca condiviso.

Il progetto Novum corpus fontanianum

Felice Fontana è noto per i contributi che diede al dibattito scientifico europeo della seconda metà del Settecento, in una pluralità di campi di studio: dalla fisiologia alla chimica, dall’anatomia alla tossicologia, fino alla patologia vegetale. Il naturalista trentino fu però anche un intellettuale organico agli ambienti della corte di Toscana, in qualità di fisico granducale, e nel 1775 fondò il Reale Museo di fisica e storia naturale di Firenze, di cui oggi sono eredi il Museo Galileo e la Specola dell’Università.

Se l’attività e il pensiero di Fontana hanno sempre mantenuto uno spazio negli studi storico-scientifici sul Settecento, l’attenzione nei suoi confronti ha conosciuto un risveglio a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. A quell’epoca risalgono infatti alcune pubblicazioni che aiutarono a comporre un quadro più nitido delle sue opere e delle fonti d’archivio a lui riconducibili. Un importante contributo in tal senso fu quello di Peter K. Knoefel (1906-1999), docente di farmacologia all’Università di Louisville, nel Kentucky, e autore di ricerche in campo tossicologico. Divenuto professore emerito, dal 1968 Knoefel si trasferì in Italia e per primo si assunse l’onere di mappare la produzione a stampa di Fontana e di scavare negli archivi alla ricerca di manoscritti scientifici [Knoefel, 1976; Knoefel, 1979; Knoefel, 1980; Knoefel, 1984a; Knoefel, 1984b; Knoefel, 1984c]. Negli stessi anni, grazie a Renato G. Mazzolini e Giuseppe Ongaro, comparve anche il primo volume di un epistolario di Fontana, che raccoglieva il carteggio con Leopoldo Marcantonio Caldani (1725-1813), assiduo corrispondente dello scienziato roveretano [Mazzolini - Ongaro, 1980]. La collana non ebbe seguito, sebbene singoli carteggi con colleghi italiani ed europei siano stati portati alla luce da alcuni contributi puntuali [Mazzolini, 1972; Ongaro, 1996].

Su iniziativa dell’Accademia nazionale delle scienze detta dei XL – discendente della Società italiana che vide Fontana tra i suoi primi membri – il progetto Novum corpus fontanianum si è proposto di prendere il testimone delle ricerche degli scorsi decenni. L’obiettivo è stato innanzitutto quello di censire le fonti edite e i materiali archivistici attinenti a Fontana, dandone una descrizione omogenea. In una seconda fase, si è proceduto alla loro digitalizzazione e alla pubblicazione in un repertorio aperto, in grado di offrire all’utente una consultazione ragionata.

Fig.1- Clementino Vannetti, Ritratto di Felice Fontana, 1775. Rovereto, Accademia degli Agiati.

Le fonti a stampa

Le ricerche di Knoefel avevano permesso di identificare un’ottantina di opere scritte da Fontana nell’arco della sua vita, tra monografie e saggi nei periodici del tempo. Già da quella ricognizione, emergeva con chiarezza il carattere internazionale dell’attività del naturalista, che si incarnò nelle numerose traduzioni dei suoi testi, a cominciare da quelle del celebre Traité sur le venin de la vipère [Fontana, 1781].

Fig.2- Frontespizio di Felice Fontana, Traité sur le venin de la vipère, Firenze 1781.

Il lavoro per il Novum corpus fontanianum ha dunque preso le mosse da questa base bibliografica, con l’intento però di sfruttare i mezzi informatici – quali cataloghi e biblioteche digitali – che oggi consentono di lanciare ricerche in un patrimonio spesso liberamente accessibile. Come hanno dimostrato gli esiti del progetto, un’impostazione di tal genere è particolarmente fruttuosa sul fronte dei contributi nei periodici che, secondo le consuetudini editoriali del Settecento, venivano spesso ristampati per altri tipi, rimaneggiati e tradotti. Se il corpus delle monografie era infatti in larga parte già descritto – fatti salvi i dubbi sull’attribuzione di alcune opere – lo stesso non poteva dirsi per gli articoli di Fontana.

Le ricerche su portali italiani, europei e statunitensi – quali, a titolo di esempio, Internet Culturale, Gallica, i siti della Biblioteca nazionale austriaca e di quella bavarese, Internet Archive o Biodiversity Heritage Library, senza contare la sterminata raccolta di Google Libri – hanno portato alla luce nuovi scritti fontaniani. Per quanto concerne libri, opuscoli e capitoli in volume, il progetto ha censito 32 testi, tutti già noti a Knoefel salvo l’edizione italiana degli Experiments and observations on different kinds of air di Joseph Priestley, che contiene un saggio di Fontana sulla chimica dei gas [Fontana, 1785]. Diversa la situazione nel campo degli articoli su periodici, dove il corpus risulta costituito da 76 testi, incluse traduzioni e riedizioni, una decina dei quali assenti dal catalogo di Knoefel.

Occorre inoltre sottolineare che, con l’apporto del comitato scientifico del progetto, si è ridefinito il perimetro delle fonti, attraverso un’analisi delle opere dubbie e falsamente attribuite a Fontana. I numeri di cui si è ora dato conto sono pertanto il risultato finale di un processo critico di selezione, mirato a rivedere le conclusioni tratte da Knoefel.

In particolare, delle venti opere anonime segnalate dallo studioso americano, dieci sono state escluse dalla nuova guida alle fonti perché giudicate assai probabilmente spurie, mentre le restanti sono state attribuite a Fontana con un sufficiente grado di affidabilità. Tra i testi estromessi si annoverano le descrizioni di strumenti scientifici e la guida al museo fiorentino uscite sull’Antologia romana nel 1775 e un nucleo di traduzioni-recensioni di scritti fontaniani su periodici quali la Scelta di opuscoli interessanti, la Raccolta ferrarese o le Observations sur la physique. Intorno ad alcune di queste pubblicazioni aleggia in maniera percepibile la presenza di Fontana, che ispirò, suggerì e talora dettò il testo, scritto però da suoi collaboratori. Il Saggio del real gabinetto, per esempio, era destinato a fare pubblicità al museo, aperto al pubblico, ma il direttore – impegnato nell’allestimento – non poté o non volle comparire come suo estensore. L’opera fu dunque redatta dall’abate Giacinto Ceruti, sulla base di una memoria manoscritta preparata dallo stesso Fontana.

L’interrogazione delle digital library ha reso possibile intervenire anche su alcune opere che Knoefel aveva ritenuto falsamente attribuite a Fontana. Se in una maggioranza di casi le sue considerazioni mantengono validità, in altri non è più così. In effetti, lo studioso aveva bollato come inesistenti diversi testi di cui aveva trovato notizia, ma che non gli era riuscito di reperire nelle biblioteche. Una volta verificatane la presenza, tre saggi di Fontana comparsi sul Journal des sçavans pubblicato ad Amsterdam – e prima usciti sulle Observations sur la physique – sono stati inclusi a pieno titolo nel corpus [Fontana, 1777-1778; Fontana, 1779a; Fontana, 1779b]. Essi sono peraltro una testimonianza della circolazione degli scritti fontaniani su un periodico, come quello edito nei Paesi Bassi, che era una contraffazione del parigino Journal des savants, aperta però alla ristampa di memorie di altra provenienza. Il giornale si rivolgeva a destinatari disposti a rinunciare alla tempestività delle notizie scientifiche e al grande formato dell’originale francese in cambio di un prezzo più modesto e, grazie alla rete commerciale olandese, ebbe notevole diffusione in vari paesi del continente [Vittu, 2019].

La determinazione del corpus è stata seguita da una breve descrizione dei contenuti di ogni fonte a stampa, in relazione con gli interessi di Fontana, i dibattiti dei quali era protagonista e altri suoi testi pertinenti. Questo lavoro è stato funzionale alla creazione dei percorsi tematici disponibili sul portale Novum corpus fontanianum, pensati per offrire all’utente una modalità guidata di fruizione del patrimonio, alternativa alla navigazione libera. Si sono infatti aggregati in apposite sezioni tutti i testi ascrivibili a uno specifico campo di ricerca frequentato da Fontana – teoria flogistica, chimica dei gas, agronomia e parassitologia, anatomia, tossicologia – così da permettere una visualizzazione organizzata dei variegati interessi dello scienziato e un accesso diretto a gruppi coerenti di fonti.

Le fonti manoscritte

Il secondo pilastro del progetto è naturalmente costituito dai documenti manoscritti. Gli studi più recenti su Fontana si sono spesso avvalsi di questi materiali e hanno pertanto rappresentato il punto d’avvio delle ricerche. Lo spoglio delle bibliografie e delle note a piè di pagina ha infatti portato a una provvisoria ricognizione delle sedi di conservazione di carte fontaniane, in Italia e all’estero. L’attività è poi proseguita con la consultazione degli inventari di biblioteche e archivi, fino a delimitare i confini del patrimonio manoscritto. Globalmente, si è superato il traguardo delle 450 unità documentarie censite, tra corrispondenza, bozze di opere poi pubblicate, dissertazioni scientifiche inedite, carte personali e frammenti sparsi. A questo complesso di documenti, vanno aggiunti quelli conservati nell’archivio del Museo Galileo di Firenze, debitamente inclusi nella guida alle fonti, ma già accuratamente descritti.

Si sono così ottenuti l’aggiornamento della lista dei soggetti conservatori e, soprattutto, la centralizzazione in un unico repertorio di materiali già inventariati localmente e attribuiti a Fontana dai singoli istituti. Di conseguenza, è ora possibile effettuare una consultazione integrata delle fonti manoscritte – accedendo a un elenco completo, sebbene aperto ad aggiornamenti – e trovare precise indicazioni su tipologia, consistenza e segnatura delle carte. Inoltre, quando rilevanti, si sono segnalati testi editi di Fontana o lavori storiografici direttamente connessi alla singola unità archivistica.

La mappa finale delle sedi che possiedono documenti fontaniani contempla, oltre all’Italia, sette paesi europei più gli Stati Uniti. In particolare, in Europa si contano 12 città e 13 soggetti tra Svizzera, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Svezia, Germania e Austria. Talora, le localizzazioni discendono dalla residenza dei corrispondenti di Fontana – Charles Bonnet a Ginevra, Albrecht von Haller a Berna o Adolph Murray a Stoccolma, per citarne alcuni – mentre altre sono legate alle tappe del suo viaggio a Parigi e Londra tra il 1775 e il 1779. È questo il caso dell’archivio della Royal Society, che conserva i manoscritti delle memorie pubblicate da Fontana sulle Philosophical transactions. Alcune porzioni di carteggi hanno invece raggiunto la loro sede attuale per vie più oscure, seguendo il destino degli archivi privati a cui appartenevano o prendendo la strada del mercato antiquario e delle collezioni di autografi.

Per motivi evidenti, l’Italia è il Paese che custodisce il maggior numero di carte fontaniane. Il progetto ha individuato 37 istituti in 25 città, prevalentemente al centro-nord, tra i quali meritano di essere ricordati almeno i più significativi in Trentino e in Toscana, luoghi particolarmente rappresentativi della biografia del naturalista.

A Rovereto, dove Fontana iniziò gli studi e mosse i primi passi negli ambienti scientifici, sono tre le sedi considerevoli. Un importante fondo è quello della biblioteca di Casa Rosmini, che conserva i resti superstiti dell’archivio personale dello scienziato, con manoscritti preparatori – anche per il trattato sul veleno della vipera – diari di esperimenti, corrispondenza e carte relative al museo. L’integrazione di questi documenti nell’archivio rosminiano va probabilmente ricondotta al testamento di Fontana, che nominò erede il fratello Bernardino, indebitato e coinvolto in rischiose speculazioni. Verosimilmente, i suoi rapporti con Ambrogio Rosmini Serbati permisero a quest’ultimo di entrare in possesso delle carte di Felice [Rizzioli, 2006; Bonazza, 2007, p. 439-440]. Il secondo polo roveretano degno di nota è l’archivio dell’Accademia degli Agiati, dove si custodiscono alcune memorie giovanili presentate da Fontana dopo la sua ammissione tra le fila dei soci, nel 1753. Infine, la Biblioteca civica possiede numerose lettere inviate a personaggi del milieu culturale cittadino, a cominciare da Girolamo Tartarotti.

A Trento, la Biblioteca comunale conserva lettere, manoscritti scientifici e carte personali, in parte provenienti dall’archivio della famiglia Fontana e acquisiti negli anni Venti del Novecento. Inoltre, vanno menzionati alcuni materiali di indubbio interesse per chi voglia lavorare sullo scienziato trentino, vale a dire gli otto faldoni del fondo Knoefel. Il medico statunitense lasciò infatti in dono alla biblioteca i documenti relativi alle sue ricerche, tra i quali si annoverano riproduzioni di manoscritti e carteggi con istituzioni culturali.

Fig.3- Appunti autografi di Fontana relativi agli esperimenti sul veleno della vipera, ca. 1780. Rovereto, Biblioteca rosminiana, Fontana, 1.3.

Sul versante fiorentino, sono ragguardevoli i fondi dell’Archivio di Stato – connessi al ruolo pubblico di Fontana e ai suoi rapporti con le autorità granducali – quelli della Biblioteca nazionale centrale – con svariate bozze di opere edite – e quelli del Museo Galileo. In quest’ultimo caso, il progetto ha tenuto conto sia dei documenti amministrativi appartenenti all’archivio del Reale Museo di fisica e storia naturale, diretto da Fontana, sia di quelli del fondo Giovanni Fabbroni – suo collega e successore – che sono talvolta copie dei primi.

Al di là dei manoscritti trentini e toscani, non si è trascurata la mappatura di un complesso di fonti contrassegnato da una forte dispersione geografica, di cui è un esempio emblematico il carteggio tra Fontana e Caldani. Le sue circa 130 missive, databili tra il 1758 e il 1794, si trovano per la maggior parte presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna e la raccolta Campori della Biblioteca estense di Modena, una collezione di autografi costituitasi nell’Ottocento. Tuttavia, esistono lettere in altre otto città italiane, alle quali si aggiunge la francese Reims, scoperta proprio grazie alle nuove ricerche.

Catalogazione e digitalizzazione

Il carteggio con Caldani, di assoluta preminenza tra gli epistolari di Fontana, può essere preso a paradigma del lavoro svolto sulle fonti manoscritte. Tutte le carte censite sono state sottoposte a una prima catalogazione, necessaria ai successivi interventi informatici del personale del CNR-Imati, che hanno dato luogo a una descrizione omogenea secondo gli standard internazionali. Le relative schede sono state caricate sulla piattaforma Geca 3.0, strumento di aggregazione appositamente sviluppato al fine di ospitare, oltre ai materiali bibliografici, anche quelli archivistici e la strumentazione scientifica [Pasciuto et al., 2022].

Inoltre, l’interesse del carteggio Caldani – miniera di informazioni su esperimenti, letture e pubblicazioni di Fontana – ha incoraggiato ad acquisirne quasi integralmente le riproduzioni digitali e a renderle disponibili al pubblico. La scelta, oltre che nei principi dell’open access, trova rilievo alla luce del già citato volume di Mazzolini e Ongaro. La consultazione degli originali è infatti confortata dall’edizione critica, che aiuta a scongiurare i rischi della mera libera distribuzione di grandi moli di contenuti. Il medesimo criterio della consultazione ragionata ha guidato la digitalizzazione di altri manoscritti, selezionati tra quelli più notevoli sotto il profilo scientifico. Si sono dunque in genere tralasciate le carte amministrative che – pur catalogate – allo stato attuale possono essere sfogliate solo presso i rispettivi istituti conservatori.

Anche l’intero corpus dei testi a stampa è stato sottoposto a digitalizzazione. Le biblioteche di Trento e Rovereto hanno fornito la riproduzione del loro patrimonio, mentre per le opere non possedute – in prevalenza saggi su periodici – si è garantito il collegamento a una o più digital libraries (Internet Archive, BHL, Google Libri…) dove visualizzare le copie custodite da altri enti. Tutti i testi digitalizzati, manoscritti e a stampa, sono stati caricati sulla piattaforma Byterfly – sviluppata dal CNR-Ircres e accessibile dalle schede in Geca – che consente peraltro di lanciare ricerche testuali grazie al riconoscimento ottico dei caratteri.

Oltre Fontana

Da quanto si è fin qui illustrato, si comprende come il portale abbia tutte le potenzialità per stimolare nuove ricerche su Fontana o, se non altro, per porsi come proficuo supporto per gli storici che vogliano studiare la sua opera. Tuttavia, la natura aperta del progetto, la creazione di un sito web fruibile da tutti – anche grazie a un’interfaccia moderna e accogliente – e la presenza di agili sezioni di approfondimento sono elementi che spingono questa guida alle fonti al di fuori del campo degli specialisti. Tra i destinatari c’è infatti qualsiasi cittadino che abbia la curiosità di esplorare la vita di uno scienziato del Settecento.

Appunto per questo, è lecito interrogarsi su quale sia la più ampia ragion d’essere di progetti di questo tipo e sul ruolo che una ricerca condotta con gli strumenti della storia può rivestire per la comprensione pubblica della scienza nel mondo contemporaneo. Considerazioni che si impongono dopo gli anni di crisi pandemica, durante i quali la scienza e gli scienziati si sono mostrati in grado di dare soluzioni straordinarie, ma spesso sono apparsi impreparati a interpretare adeguatamente la loro funzione nei confronti di istituzioni e cittadini. Sembra quindi opportuno soffermarsi su alcuni temi chiave delle ricerche condotte in campo STS, a proposito del ‘giusto posto’ della scienza nelle società democratiche e delle strategie per renderla capace di rispondere alle urgenze del presente. Rivolgendo l’attenzione alla contemporaneità, si metteranno in risalto alcuni elementi intrinseci dell’impresa scientifica, per sottolineare il contributo che anche la storiografia può porgere alla creazione di ponti tra scienza e cittadini.

Scienza, istituzioni, cittadini

La recente esperienza del Covid-19 ha portato in primo piano il tema della fiducia nei confronti della conoscenza scientifica e quello dei rapporti tra esperti e decisori politici. La riflessione sul posto pubblico della scienza e sulla sua parte nelle decisioni normative è però ben antecedente e costituisce il terreno di quella che viene definita science policy. L’espressione non è semplicemente traducibile in italiano come ‘politica della scienza’: essa, infatti, abbraccia da un lato le iniziative assunte dai governi per finanziare e regolare la ricerca scientifica (policy for science) ma, dall’altro, anche gli interventi della scienza chiamata a informare, indirizzare o legittimare le scelte pubbliche (science for policy) [Brooks, 1964, p. 76-77]. Quest’ultimo è senza dubbio un versante sempre più critico, poiché molti problemi odierni richiedono un’expertise che sappia indicare rischi e ricadute delle decisioni. Viene quindi chiamata direttamente in causa la dimensione della scienza come potere autorevole, che deve però essere collocato all’interno delle garanzie democratiche.

Nel corso del Novecento, entrambi gli aspetti della science policy si sono articolati intorno a una concezione della scienza intesa, in sé stessa, come democrazia. Le influenti posizioni di Robert Merton e Michael Polanyi contribuirono infatti a consolidare la necessità della scienza come credibile strumento di governo, ma anche a promuoverne la singolarità e l’autonomia rispetto alla società. Merton rivendicava un ethos proprio della scienza, che non sarebbe circoscritto ai fondamenti del metodo, ma arriverebbe a investire gli stessi scienziati, membri di una comunità pervasa da principi come l’universalismo, il disinteresse e lo scetticismo organizzato [Merton, 1942; Merton, 2011]. Polanyi propose una visione convergente, paragonando la scienza a una repubblica, una comunità di pari sovranazionale e apolitica che si autoregola con la libera discussione. In quanto tale, essa vedrebbe riconosciuta dalla società la sua superiorità e autorevolezza [Polanyi, 1962]. Non sfuggirà come tali rappresentazioni corressero il rischio di aprire la strada alla tecnocrazia, celata dietro l’immagine di una scienza intimamente democratica. Un rischio che negli Stati Uniti fu in effetti paventato da Dwight D. Eisenhower già nel 1961, al termine del suo mandato presidenziale.

Le tesi di Merton e Polanyi erano in linea con il modello moderno dei rapporti tra scienza e decisioni pubbliche, che aveva lontane radici negli ideali dei Lumi [Funtowicz, 2010]. Il metodo scientifico era visto come garanzia di conoscenze univoche e affidabili, alle quali attingere per perseguire gli obiettivi dei governi. Così, nel secondo Novecento si è assecondata l’idea di una scienza speaking truth to power, secondo la definizione coniata alla fine degli anni Settanta da Aaron Wildavsky [Wildavsky, 1979]. La formula nacque negli Stati Uniti, dove a partire dal 1945 aveva trovato applicazione l’architettura proposta da Vannevar Bush. L’ingegnere e consigliere scientifico credeva in una scienza autonoma e autoreferenziale, «libero gioco di liberi intelletti», costantemente rivolta verso la «frontiera infinita» del sapere. A suo avviso, la ricerca andava dunque finanziata, in quanto capace di produrre le conoscenze certe e imparziali necessarie a scelte pubbliche science-based. L’idea si radicò fortemente – Oltreoceano e non solo – tanto che ancora oggi se ne rivendicano acriticamente i meriti o, all’opposto, se ne lamenta la funesta persistenza [Sarewitz, 2020] Nota n.24; [Pielke, 2020]. Una visione del tutto analoga si è riverberata anche in Italia, tornando ad affiorare nelle fasi più acute della pandemia, quando qualificati esponenti di governo chiedevano alla comunità scientifica «certezze inconfutabili e non tre o quattro opzioni per ogni tema. […] Pretendiamo chiarezza, altrimenti non c’è scienza» [Guerzoni, 2020].

Già dalla fine del secolo scorso, si è però fatta strada la consapevolezza della fallacia di tale concezione, insieme a quella di una ‘crisi’ della scienza. Questa investe tanto problemi di riproducibilità degli esperimenti, quanto aspetti legati alla sua dimensione sociale e culturale, come la scarsa efficacia dei processi di peer-review, le frodi e i conflitti di interesse [Ioannidis, 2005; Guimarães Pereira - Funtowicz, 2015; Benessia, 2016; Saltelli - Funtowicz, 2017]. A ciò si aggiungono i limiti della pubblicazione su riviste ad abbonamento, che inevitabilmente godono di una ridotta accessibilità. Sottolineare simili criticità non significa svilire la scienza o proporne un’equivalenza con altre opinioni e forme di sapere, ma sollecitare la ricerca di una via per superarle. Oltre alle iniziative volte a ripristinare l’integrità scientifica, le possibili soluzioni sono state rintracciate in una partecipazione estesa e nell’apertura democratica della scienza [Guston, 2013].

Democratizzare la scienza

La pandemia ha dato corpo al concetto di scienza post-normale (PNS), elaborato intorno al 1990 da Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz in contrapposizione alla scienza normale teorizzata da Thomas Kuhn [Funtowicz - Ravetz, 1990; Funtowicz - Ravetz, 1993]. I due studiosi contestano l’idea di un razionale avanzamento verso conoscenze sempre più affidabili che, fluendo dalla scienza pura a quella applicata, porterebbero al controllo del mondo naturale. La scienza post-normale si trova infatti a operare in contesti segnati da quattro irriducibili problemi: incertezza elevata, alte poste in gioco, valori in discussione e decisioni urgenti. Elementi divenuti palesi negli scorsi anni e che si sono talora scontrati con una rappresentazione della scienza quale portatrice di verità, alle quali prestare ascolto e pronte per essere automaticamente tradotte in norme di legge.

Nelle circostanze post-normali occorre invece riconoscere i molteplici livelli di incertezza che segnano la ricerca scientifica e i suoi rapporti con la società. Esistono innanzitutto l’ignoranza rispetto alle variabili e l’incertezza sulle probabilità di un evento, che costituiscono i caratteri oggettivi dell’incertezza. A questi si sommano poi quelli soggettivi, legati a scelte, metodi e bias dei ricercatori, già messi in luce da Popper e indagati da filosofi e sociologi della scienza [Longino, 1990]. Ma l’incertezza, divenuta condizione ‘normale’, può arrivare ad assumere i connotati di quell’incertezza radicale che, secondo Jean-Pierre Dupuy, è intrinseca nei sistemi tecnologici complessi e supera il piano epistemico. L’incertezza radicale ha infatti una portata ontologica che può essere chiarita solo avviando i processi stessi: mentre essi si svolgono e mentre l’osservatore li descrive, la realtà si trasforma [Dupuy, 2007]. La scienza post-normale – che interpella una lunga serie di questioni contemporanee, a cominciare da quella climatica – richiede dunque di non liquidare le incertezze in modo automatico ma, al contrario, di prenderle in carico in ogni loro dimensione.

Serve inoltre ammettere che sempre più spesso i problemi da affrontare – e per i quali si chiede alla scienza una risposta – hanno sì una componente scientifica, ma strettamente connessa a valori e poste in gioco contrastanti, che non possono essere valutati e gestiti dalla sola comunità degli esperti. Per questo, assume rilievo il richiamo al ruolo epistemico dei cittadini, chiamati a far parte di una extended peer community, che prenda in considerazione punti di vista differenti e accolga competenze diffuse. Nelle knowledge-based society, dove la scienza è diventata fonte indispensabile per le decisioni, una simile prospettiva segnerebbe una democratizzazione che – pur senza negare valore e specificità al lavoro degli scienziati – coinvolgerebbe i cittadini nei processi decisionali che li riguardano, rendendo questi ultimi più trasparenti.

Seguendo tale criterio si deve dunque riflettere su un nuovo senso dei rapporti tra scienza e democrazia, che non si dispieghi solo all’interno della comunità scientifica, ma nella società nel suo insieme. Come ha esemplarmente evidenziato David Guston, democratizzare la scienza non vuol dire «risolvere le questioni sulla natura con un plebiscito». Significa piuttosto «creare istituzioni e pratiche che incorporino pienamente i principi di accessibilità, trasparenza e responsabilità [e] insistere affinché la scienza, oltre a essere rigorosa, sia aperta, rilevante e partecipativa» [Guston, 2004, trad. mia]. Serve però interrogarsi anche sulle forme del coinvolgimento dei cittadini e sulle motivazioni di chi lo promuove. In effetti, l’afflato democratico è sovente restato una nozione vaga e retorica, al più concretizzata in esperimenti limitati e guidati da istituzioni ansiose di preservare consolidate relazioni di potere [Weingart - Joubert - Connoway, 2021; Pitrelli, 2021].

A dispetto delle levate di scudi in difesa di una presunta essenza non democratica della scienza, anche Sheila Jasanoff – massima studiosa di STS – ha ricordato che scienza e democrazia fondano il loro funzionamento su valori condivisi, che includono l’attenzione all’incertezza e alle preoccupazioni altrui:

Un impegno per la ragionevolezza e la trasparenza, un’apertura all’esame critico, uno scetticismo verso le affermazioni che sostengono in modo troppo netto i valori dominanti, una predisposizione ad ascoltare le opinioni contrarie, una disponibilità ad ammettere l’incertezza e l’ignoranza e un rispetto per le prove raccolte secondo le migliori pratiche del momento [Jasanoff, 2009, trad. dell'autore].

È proprio a questa fondamentale consonanza che si può ricondurre un modello che, nato già da qualche decennio, continua a trovare riscontri e applicazioni. Si tratta della prospettiva della co-produzione, sviluppata da Jasanoff come potenziale risposta alla crisi della scienza e come critica alle narrazioni della science-based policy. In sintonia con il modello moderno, queste ultime insistono su una netta demarcazione tra fatti e valori, descrizioni della natura e prescrizioni normative, e si allineano alla tesi di una scienza che produce verità neutrali, disinteressate e utilizzabili dai governi.

Vale la pena ricordare che già Steven Shapin e Simon Schaffer, in un noto volume pubblicato negli anni Ottanta, rilevarono come «solutions to the problem of knowledge are solutions to the problem of social order» [Shapin - Schaffer, 1985, p. 332]. Jasanoff prende le mosse da una tesi analoga, per mettere in luce un legame inestricabile tra le dimensioni della politica e della conoscenza scientifica. Fulcro della sua riflessione sono i processi di negoziazione che si sviluppano all’interfaccia tra scienza e società, specie nei contesti di incertezza: è da tali compromessi che nascono dei costrutti scientifico-giuridici, frutto dell’inscindibile contributo di entrambe le parti in causa. È dunque secco il rifiuto di un flusso unidirezionale di verità, prodotte dalla comunità degli esperti e dirette a policymaker e cittadini [Jasanoff, 2004].

Al di là delle sue implicazioni giuridiche, la co-produzione si rivela soprattutto un’opportunità di chiarire i meccanismi che stanno alla base delle decisioni informate dalla scienza, facendole divenire più limpide. L’apertura delle ‘scatole nere’ della science policy diventa ancor più necessaria nei contesti post-normali che, come accennato, possono beneficiare di un allargamento della peer-review anche ai cittadini, da considerarsi come interlocutori responsabili. Grazie al dialogo, le negoziazioni tra politici e scienziati e la formazione delle decisioni si mostrerebbero nella loro vera natura, rendendo più consapevole il pubblico e rafforzando la legittimazione delle istituzioni. Le ripetute invocazioni a fidarsi o ad ascoltare la scienza possono trovare senso nella spiegazione di quali siano – davvero – le informazioni scientifiche e nell’esplicitazione dei processi con cui esse si trasformano in norme regolatorie.

Del resto, nonostante grida d’allarme e discorsi pessimistici, le rilevazioni statistiche segnalano che – in Italia e nei paesi occidentali – la fiducia nei confronti della scienza è generalmente alta e le quote di chi assume posizioni antiscientifiche sono marginali. Il problema non è quindi quello di spingere i cittadini a fidarsi, tantomeno con vaghi appelli, bensì quello di una restituzione di fiducia, che poggi su un riconoscimento delle loro capacità critiche [Leshner, 2021]; [Bucchi, 2021]. Ciò significa ripensare il modo in cui la scienza si autorappresenta e quello in cui viene raccontata, lasciandosi alle spalle le tesi mertoniane. Significa accettare che anch’essa non è esente da valori e giudizi, che entrano inevitabilmente in gioco nei suoi rapporti con la società [Tallacchini, 2022].

La pandemia ha insegnato che per costruire fiducia tra esperti e cittadini bisogna innanzitutto ammettere l’incertezza e dunque rinunciare agli atteggiamenti fideistici, propri di una scienza paternalistica che dispensa soluzioni certe. Le molteplici variabili – da quelle economiche a quelle etiche – chiamate in causa da una situazione con risvolti globali hanno attestato la necessità di una discussione politica complessiva, che non si limitasse a risposte puramente scientifiche. Quando si sono riconosciute le capacità dei cittadini, delegando conoscenze abilitanti che essi stessi potevano contestualizzare e applicare nelle loro vite, si è garantito il diritto all’informazione, ma anche il rispetto di valori e preoccupazioni diversi [Pitrelli - Tallacchini, 2023, p. 163-168].

Conoscenze esperte e conoscenze diffuse sono entrambe importanti e il dibattito sul ‘giusto posto della scienza’ non può più limitarsi all’ennesima rivendicazione della sua indipendenza. Piuttosto che isolarsi nel tentativo di recuperare una mitica purezza, la scienza può incamminarsi verso un pieno coinvolgimento democratico, abbandonando le tentazioni autoritarie e cercando la via per diventare una scienza gentile e rispettosa [Cardew, 2020]. Solo così si potranno combattere gli opposti rischi della tecnocrazia e della diffusione di un pensiero antiscientifico o complottista [Bucchi, 2009].

Una storia della scienza in tempi post-normali

Le linee di faglia che attraversano la scienza contemporanea e la sua dimensione pubblica non possono essere trascurate da chi fa del passato il suo territorio di studio, ma opera nel presente e propone interpretazioni che con esso sono destinate a interloquire. La sfida della comprensione del posto della scienza e quella della trasparenza dei meccanismi con cui si rapporta alla società interpellano anche gli storici della scienza, che possono trarre frutto dalle tesi elaborate dagli studiosi STS. Al di là del differente focus temporale e delle specificità metodologiche, è evidente che i due campi di ricerca hanno larghe fasce di sovrapposizione e che un aggiornamento degli strumenti e delle strategie può concorrere al lungo cammino verso una vera cittadinanza scientifica. Sono in particolare le iniziative rivolte anche ai non specialisti – come il Novum corpus fontanianum – a offrire le opportunità più interessanti. Le pagine del portale, che accompagnano virtualmente il visitatore dentro il laboratorio di Fontana, possono infatti sollecitare la riflessione su alcuni dei temi che si sono fin qui sollevati. Due esempi daranno ragione di un simile scenario.

Innanzitutto, c’è la sostanziale questione della transitorietà delle conoscenze scientifiche. La storia della scienza è un punto di osservazione privilegiato, che documenta la caducità delle teorie del passato e, di conseguenza, mette in prospettiva le certezze dell’oggi. L’attualità somministra continui esempi dell’incedere della scienza contemporanea, che seguita a trarre forza dalla discussione, dalla critica e dal controllo degli errori. Basti pensare al dibattito generato negli ultimi anni dalla diffusione di articoli in preprint, non ancora sottoposti a revisione: eccezionale strumento per la rapida diffusione di informazioni durante l’emergenza, sono stati però ripresi apoditticamente da televisioni e giornali, alimentando successive polemiche su una scienza che non cessava di smentire sé stessa [Watson, 2022]. Episodi di tal genere rammentano che – specie in situazioni di grande complessità – si dovrebbe diffidare di affermazioni dogmatiche e definitive. A questo proposito, la pandemia ha messo in luce strategie e atteggiamenti variabili, sia tra gli esperti chiamati a svolgere funzioni di consulenza, sia tra gli esponenti di governo.

Negli Stati Uniti, la fallimentare gestione del presidente Trump si è accompagnata a pratiche di trasparenza e a una tradizione di science policy che, pur non immune da difetti, si è da tempo aperta al coinvolgimento dei cittadini [Forgione, 2021]. In Italia, una prima fase di comunicazione rassicurante, nella quale gli esperti erano visti come «l’oracolo di Delfi» e la scienza come «le tavole di Mosè», è stata seguita dalla caotica sovrapposizione di voci contrastanti, ognuna delle quali rivendicava una verità scientifica differente [Camporesi - Angeli - Dal Fabbro, 2022]. Una situazione che si è esacerbata sui media, dove gli esperti sono stati scelti secondo logiche di scontro e si sono espressi su terreni dei quali non avevano padronanza, alimentando polarizzazione e sfiducia. L’illusione di un esperto neutrale si è infranta e la mancanza di una solida architettura di consulenza scientifica ha favorito una comunicazione con i cittadini diretta, ma spesso inconsapevole [Väliverronen, 2021; Tavernaro, 2021].

Tornando alla storia e al caso Fontana, la provvisorietà delle conoscenze e l’assenza di verità immutabili appaiono manifeste a più livelli. Non solo sul piano generale dell’adesione a teorie ritenute valide nel Settecento e oggi sorpassate, ma anche nella continua opera di revisione a cui Fontana sottoponeva i risultati già raggiunti, sulla base di nuove evidenze sperimentali e più accurati dati empirici. Nonostante una forte personalità, poco incline all’umiltà oggi richiesta al visible scientist, egli era consapevole della precarietà delle sue acquisizioni, specialmente quando lavorava su terreni ancora inesplorati. Emblematica a questo proposito è la prudenza espressa al termine del dettagliato resoconto dei suoi esperimenti tossicologici:

Può darsi benissimo ch’io mi sia ingannato, e sarebbe ancora in certo modo impossibile ch’io non avessi mai preso abbaglio in una materia difficile, oscura e nuova. Mi basta il poter accertare, che non ho scritto se non quello che ho veduto, o almeno che ho creduto vedere. […] Quanto poco siamo noi certi, anche delle cose che crediamo saper meglio, e nelle quali temiamo esserci meno ingannati! [Fontana, 1787, vol. 2, p. 246]

Ricordare questa caratteristica della scienza moderna, al di là delle peculiarità dei contesti, può giovare a una rappresentazione più obiettiva del suo agire, che si liberi da incrostazioni ingannevoli ma persistenti.

Il secondo ordine di riflessioni stimolato dal progetto è legato al ruolo di fisico granducale ricoperto da Fontana. Pur senza indulgere ad anacronismi o alla ricerca di precursori, gli occhi e le categorie del presente possono spingere a paragonarlo a quello dei moderni consiglieri scientifici[41]. Una parte dell’attività di Fontana, in sintonia con le politiche di Pietro Leopoldo e lo spirito illuministico, era rivolta all’istruzione e a quella che veniva definita pubblica utilità. Si pensi ai progetti di installazione di parafulmini, alla realizzazione di modelli anatomici e alla costruzione di strumenti come l’eudiometro per misurare la salubrità dell’aria. Oppure all’auspicata finalità educativa del Museo di fisica e storia naturale, che avrebbe dovuto incoraggiare l’autoapprendimento da parte dei visitatori [Contardi, 2002; Fontana, 1775].

Non c’è dubbio che, nel Settecento, porgere al principe il contributo della scienza fosse molto diverso da quanto avviene oggi con i chief scientists nominati dai governi. La profondità storica può però aiutare a tenere a mente che anche nel passato la scienza era calata in un contesto e che le sue direzioni di sviluppo sono state condizionate al tempo stesso da fattori cognitivi e fattori sociali, come i rapporti con il potere. Gli odierni scientific advisory system, che elaborano la scienza per le policy, sono eredi delle accademie settecentesche, ma nelle loro forme attuali sono nati solo nel Novecento. Tali organismi sono tra i più interessanti argomenti del dibattito sul posto della scienza nelle società democratiche, perché spesso costituiscono lo snodo dei rapporti tra esperti, decisori politici e cittadini. In contrasto con il modello moderno, nato appunto dalla cultura dei Lumi, oggi ai science advisor si chiedono qualità nuove e rivolte anche alla costruzione di un coinvolgimento trasparente dei cittadini, basato sull’ascolto e la fiducia [Jasanoff, 1990; Pielke, 2007; Pitrelli - Tallacchini, 2023, p. 104-132].

Accrescere la consapevolezza pubblica intorno alla scienza e alla tecnologia non è un compito esclusivo di chi si occupa di science studies. Accantonando l’idea di un’irriducibile dicotomia tra passato e presente, e concentrandosi invece sulla scienza come comune oggetto di studio, diventa possibile valorizzare i cambiamenti e le continuità nel corso del tempo. I risultati della ricerca storica, che smentiscono un cammino trionfale del progresso scientifico, possono così acquisire un nuovo valore. Viceversa, la contemporaneità offre spunti per indagini e interpretazioni del passato da nuovi punti di vista. In entrambi i casi, i cittadini e gli stessi scienziati potrebbero godere di mezzi per la comprensione della natura sociale e «consensuale» della scienza.

Ciò è tanto più vero quanto più ci si sposta verso forme di comunicazione innovative. Negli ultimi anni, istituzioni culturali quali musei, biblioteche e archivi hanno aggiornato le modalità di dialogo con l’esterno e il rinnovamento può chiamare in causa anche gli storici, con le loro pratiche e i loro metodi. Ai non addetti ai lavori si possono infatti offrire occasioni nuove di incontrare la scienza, per semplice curiosità, per volontà di approfondire il proprio pensiero critico, o per un puntuale interesse su uno specifico tema. In simili contesti, il passato può essere presentato in forme coinvolgenti e, al contempo, si può cogliere l’occasione per perseguire una raffigurazione realistica della scienza, sia come processo dagli esiti sempre provvisori, sia come componente imprescindibile delle società della conoscenza. Progetti come il Novum corpus fontanianum – che certamente non è un caso isolato – hanno come cardine l’accessibilità da parte di un pubblico con diversi gradi di competenza. Proprio per questo sono tasselli di un largo programma di educazione civica alla scienza, che non deve prescindere dalla percezione dello sviluppo storico di questa forza fondamentale per la vita individuale e collettiva.